Oggi si celebra l’anniversario della legge 180, la cosiddetta legge “Basaglia”, con la quale si stabiliva, 42 anni fa, la chiusura definitiva dei manicomi pubblici. Con l’occasione vi proponiamo uno scritto dedicato appunto alla genesi di quella celebre e importantissima riforma. Per scoprire assieme aneddoti e curiosità, per capire i retroscena e conoscere le posizioni in campo, per provare a superare gli stereotipi e le numerose (purtroppo) ricostruzioni parziali. Per capire, infine, cosa pensasse davvero Basaglia della “sua” legge.
La riforma sanitaria e la legge 180
«Onorevoli colleghi! Il testo predisposto dalla XIV Commissione permanente, più comunemente noto come “legge di riforma sanitaria” e che per la prima volta giunge all’esame dell’Assemblea, risponde innanzitutto all’esigenza di dare corpo e concretezza al preciso dettato sancito dall’articolo 32 della Costituzione. Come è noto, questo articolo, in armonia con le tendenze e le aspirazioni della società contemporanea, afferma che spetta ai pubblici poteri provvedere alla tutela della salute, che viene presa in considerazione dall’ordinamento giuridico perché ritenuta bene primario dell’uomo, in quanto […] condizione indispensabile affinché l’individuo possa estrinsecare, liberamente e compiutamente, la sua personalità» (1).
Nel dicembre del 1977 aveva finalmente inizio, alla Camera, la discussione sulla legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Il testo, che rappresentava il punto di approdo di oltre un decennio di lotte sindacali, di iniziative naufragate spesso anche sul nascere, di progetti elaborati e mai giunti in Parlamento, di dibattiti e convegni sul tema (2), era il frutto di un lungo lavoro di sintesi che la Commissione igiene e sanità aveva effettuato a partire da un ddl governativo e da quattro diverse proposte di legge presentate, rispettivamente, dal PCI, dal PSI, dal partito demoproletario e da quello liberale.
Per quanto concerne l’assistenza psichiatrica, cui erano dedicati due articoli piuttosto corposi, il n. 30 ed il n. 54, la novità più importante era senz’altro costituita dall’abolizione dei manicomi, misura che ormai pareva godere di un largo consenso sia in campo medico, come si è visto, sia a livello politico (3). Permaneva però, a fare in un certo senso da contraltare proprio a quella misura, una forma di ricovero coattivo, il cosiddetto trattamento sanitario obbligatorio (TSO), che sulla base di quanto stabilito dal terzo comma dell’articolo 30 doveva essere disposto dall’autorità sanitaria, previa «proposta motivata di un medico» della USL, ma solo ove fossero esistite «alterazioni gravi dello stato di salute individuale o gravi ragioni di sanità pubblica e condizioni e circostanze» tali da giustificare il «provvedimento per l’impossibilità di adottare idonee misure sanitarie di altra natura».
I trattamenti sanitari obbligatori: le posizioni politiche
Alla Camera la questione dei TSO fu da subito al centro di una polemica durissima. Le critiche più intransigenti provennero indubbiamente dai banchi del partito radicale, che al riguardo aveva addirittura sollevato una pregiudiziale di incostituzionalità (4), poi respinta, e soprattutto di quello demoproletario: «vi sono alcune cose – spiegò Massimo Gorla intervenendo al dibattito sulle linee generali della riforma – che ci lasciano stupefatti […]. Si afferma che il malato ha diritto a comunicare con l’esterno. Lo credo bene! Ci mancherebbe altro che non avesse tale diritto. Non capisco perché si debba regolamentarlo per legge. Si afferma ancora che il malato ha diritto di opporsi ad un trattamento coatto […], rivolgendosi, direttamente o attraverso i suoi legali, al giudice tutelare. Signor Presidente, confesso di non capire. Ho la sensazione che accanto al fermo di polizia, che stiamo trattando in altra sede, si stia istituendo il fermo di malattia».
Del tutto opposto era invece il punto di vista della DC, di cui si fece portavoce Bruno Orsini, psichiatra e membro della Commissione igiene e sanità della Camera, secondo il quale la malattia mentale poteva essere considerata, in certe circostanze, una sorta di «patologia della libertà»: «perciò può darsi il caso di psicopazienti estremamente bisognosi di cure urgenti ospedaliere [e] che tuttavia non siano in grado di chiederle o addirittura le rifiutino […]. La legge coglie giustamente un punto centrale: il ricovero coatto, come tutti i trattamenti sanitari obbligatori, non è emergenza solo psichiatrica (si pensi alle malattie infettive) e non giustifica quindi una legislazione speciale ma semmai una più moderna e coordinata regolamentazione dei casi che lo rendono indispensabile, così come la legge, appunto, prevede» (5).
Il compito di illustrare la posizione del PCI, sostanzialmente affine a quella democristiana, fu affidato a Vanda Milano, pure lei psichiatra e pure lei componente della Commissione igiene e sanità della Camera: «noi siamo convinti – disse – che un diverso modo di “fare salute”, una diversa educazione sanitaria, un diverso rapporto medico paziente, una diversa partecipazione democratica ridurranno grandemente […] il ricorso alla coazione […]. Ma il negare ora, contro ogni evidenza, che sussista la necessità, sia pure eccezionale, di un provvedimento coattivo significherebbe non capire e non conoscere la realtà in cui ci muoviamo oppure affermare un principio che ci trova profondamente dissenzienti, cioè quello della malattia come diritto del cittadino. Noi crediamo al diritto alla salute. La coazione non è il fermo della salute: è, in casi del tutto particolari, una garanzia di tutela della salute. Per questo, all’interno dell’articolo 30, ci siamo impegnati a renderla una misura di tipo sanitario e non di pubblica sicurezza».
Le scontro sui TSO nella legge 180
Il 17 dicembre anche la basagliana Psichiatria democratica si inserì a pieno titolo nella querelle in corso alla Camera: «esprimiamo preoccupazione e dissenso su questa proposta […] – recitava un comunicato stampa dell’associazione – perché tale forma di “trattamento sanitario obbligatorio” (a parte ogni giudizio sulla sua reale efficacia terapeutica) costituisce lesione della libertà personale e dei diritti del cittadino e non può pertanto essere lasciata alla decisione dell’autorità sanitaria» (6). Quarantott’ore dopo era lo stesso Franco Basaglia, in un’intervista concessa al Giorno, ad esprimere un giudizio complessivamente negativo sulla riforma: «è una danza di principi vecchi e nuovi, evidente risultato di un lavoro di compromesso che rischia di lasciare le cose esattamente come sono, con tutti i poteri delegati al medico e ad altri personaggi che con la cura del malato non hanno nulla a che fare. In effetti la legge presuppone l’esistenza di un’organizzazione sociale completamente diversa, assolutamente democratica. Ciò che non è. Bisogna [prevedere] – proseguiva Basaglia – delle norme transitorie. La proposta [attuale] potrebbe anche essere accettabile se conoscessimo le norme transitorie per realizzarla, perché è chiaro che senza [di esse] non ci si potrebbe nemmeno muovere, oppure ci si muoverebbe sempre illegalmente, con il pericolo di denunce e di processi» (7).
Il 21 dicembre, infine, giungeva la replica di Vanda Milano: attraverso un lungo articolo pubblicato su l’Unità e intitolato emblematicamente Perché non si può parlare di fermo sanitario la psichiatra del PCI imputò a Basaglia e Pirella «errori di lettura anche banali», precisando poi che «l’autorità sanitaria di cui parla[va] l’articolo 30 non e[ra] il medico ma il sindaco»: «il sindaco peraltro – proseguiva l’articolo – [agisce] sulla base di un disposto di legge e di un’indicazione fornita dagli operatori del settore. Non vi è quindi alcun medico che possa, “senza informare nessun organo pubblico per 48 ore, decidere con potere assoluto il ricovero coatto in manicomio”, perché l’autorità sanitaria non è il medico e il ricovero coatto non può avvenire nell’ospedale psichiatrico. Né il giudice tutelare ha nella legge funzioni costrittive ma semmai di controllo e di carattere garantista» (8).
Il “pericolo” referendum
Intanto, mentre i lavori parlamentari procedevano a rilento, sia per l’oggettiva complessità della materia in esame sia per effetto della crisi di governo del gennaio ’78, cui si aggiunse poi anche, a marzo, il rapimento dell’onorevole Moro, si profilò la celebrazione di numerosi referendum promossi all’inizio del ’77 dal partito radicale, uno dei quali chiedeva l’abrogazione della normativa giolittiana sui manicomi e sugli alienati, all’epoca ancora in vigore.
L’opzione referendaria era invisa a tutte le forze politiche e pure Basaglia vi si era dichiarato fermamente contrario, dicendosi certo di un responso negativo da parte degli elettori; (9) i radicali avevano invece continuato a sostenere l’utilità – e la legittimità – della loro strategia anche dopo che alla Camera era stato presentato, nel dicembre del 1977, il testo unificato della Commissione igiene e sanità (10), testo che come si è accennato poc’anzi prevedeva espressamente, all’ultimo comma dell’articolo 30, l’abrogazione della vecchia legge manicomiale del 1904. Se si fosse trattato di un modo per costringere il Parlamento a decidere senza ulteriori esitazioni o piuttosto di una difesa di principio del referendum, in un momento storico in cui parevano manifestarsi volontà di revisione più o meno profonda di quell’istituto giuridico, in fondo poco importa. L’elemento da sottolineare è forse un altro e cioè il fatto che l’approssimarsi della scadenza referendaria, fissata per l’11 giugno del 1978, innescò una reazione a catena destinata a mutare completamente il corso degli eventi.
Il disegno di legge
Vediamo dunque cosa accadde. Innanzitutto va ricordato che per eludere il tanto temuto voto popolare la legge istitutiva del Servizio sanitario nazionale doveva essere promulgata entro e non oltre la metà di maggio, scadenza però impossibile da rispettare, dato che in quei giorni il testo della Commissione si trovava ancora all’esame della Camera (ne erano stati votati appena pochi articoli) (11). Il Governo si affrettò allora ad approvare un disegno di legge denominato “Accertamenti e trattamenti sanitari obbligatori”, che fu poi affidato, per sveltirne ulteriormente l’iter legislativo, alle Commissioni igiene e sanità di Camera e Senato in sede deliberante.
Il nuovo ddl si ispirava, come esplicitamente richiesto da un documento congiunto firmato da AMOPI, Psichiatria democratica e SIP, agli articoli 30 e 54 del progetto di legge sulla riforma sanitaria: per la prima volta, tuttavia, compariva l’espressione “servizi psichiatrici di diagnosi e cura” (SPDC) ad indicare il luogo fisico all’interno degli ospedali generali ove avrebbe dovuto espletarsi il trattamento sanitario obbligatorio per malattia mentale in regime di ricovero (12). Altre piccole correzioni si erano poi rese necessarie, naturalmente, per eliminare dal testo ogni riferimento diretto a tutte quelle strutture, come ad esempio le USL, che al momento non esistevano ancora e che sarebbero state istituite soltanto a dicembre, con l’approvazione della legge sul Servizio sanitario nazionale.
Ulteriori modifiche al disegno di legge
Nel corso delle votazioni, tenutesi il 28 aprile e il 2 maggio del 1978, il ddl governativo venne però sottoposto ad alcune ulteriori modifiche. In primo luogo fu approvato un emendamento di carattere garantista, suggerito dal PCI e dal PSI, che introduceva l’obbligo di una seconda convalida medica, oltre a quella già prevista in origine, per i provvedimenti di trattamento sanitario obbligatorio. Si stabilì inoltre che quei provvedimenti, qualora avessero comportato una degenza in ospedale, avrebbero potuto essere disposti solo al verificarsi simultaneo di tre diverse condizioni: la presenza di «alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici»; il rifiuto, da parte del malato, di quei trattamenti; la mancanza delle «condizioni» e delle «circostanze» necessarie ad «adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extra ospedaliere».
Vi fu poi uno scontro alquanto vivace sul problema degli SPDC. Il partito socialista, che nella sua proposta di legge sulla riforma sanitaria aveva addirittura optato per la soluzione del “letto tecnico” (13), chiese – ed ottenne – che nell’articolo aggiuntivo 6-bis (…devono essere istituiti specifici ed autonomi servizi psichiatrici di diagnosi e cura), presentato dal relatore Orsini, fosse soppresso l’aggettivo “autonomi”: «andava rifiutata – avrebbe spiegato più tardi l’onorevole Angelo Tiraboschi – l’intenzione di costituire, esaltandone l’autonomia, [strutture] corrispondenti a dei piccoli manicomi […]. L’eliminazione del termine usato nel testo […] offre più solide possibilità di un collegamento permanente tra degenti e servizi territoriali, tra operatori e contesto familiare e sociale» (14); su precisa istanza del PCI, infine, il numero massimo di posti letto all’interno dei Servizi psichiatrici di diagnosi e cura venne abbassato da 20 a 15.
Basaglia, TSO e SPDC
Sciolti i nodi residui e approvato l’intero articolato della legge, il 2 maggio fu quindi possibile procedere alle dichiarazioni di voto. A riesaminare oggi i resoconti stenografici di quella seduta ciò che salta immediatamente agli occhi è un sentimento comune e condiviso di soddisfazione per il risultato raggiunto: aspetto da non trascurare, quest’ultimo, perché testimonia molto bene della larghissima convergenza che era venuta realizzandosi, soprattutto nella fase conclusiva dei lavori, tra le varie forze politiche rappresentate in Commissione.
Anche se gli sarebbe poi stata attribuita la paternità della nuova normativa – paternità che gli va senza dubbio riconosciuta, se non altro sul piano culturale – Basaglia era uscito “sconfitto” almeno su due punti qualificanti della riforma: in primo luogo sui trattamenti sanitari obbligatori, cui – come si è visto – si era subito energicamente opposto (15); e in secondo luogo sugli SPDC, sempre ammesso che possano far fede, al riguardo, le “linee guida” per l’applicazione concreta della legge dettate dalla Segreteria nazionale di Psichiatria democratica ai suoi iscritti, nelle quali si chiedeva di «lottare contro l’istituzione dei servizi […] di diagnosi e cura negli ospedali generali, che costituiscono di fatto una gestione separata e ripropongono […] al di là delle buone intenzioni la logica del manicomio» (16). Ben più appagata poteva invece ritenersi l’AMOPI, che su entrambi quei punti aveva visto accolte, sebbene con alcune parziali modifiche, le proprie rivendicazioni iniziali (17); non si dimentichi peraltro che tanto la comunista Milano quanto il democristiano Orsini facevano parte di quell’associazione e avevano intrattenuto relazioni costanti con il suo presidente, Eliodoro Novello, fin dal 1977.
La legge 180 nella riforma sanitaria
Dopo essere stata approvata, senza alcun emendamento, anche dalla Commissione igiene e sanità del Senato, presieduta dall’onorevole Adriano Ossicini, nel dicembre del 1978 la “180” confluì nella legge 833 istitutiva del Servizio sanitario nazionale. Quel passaggio non fu però scevro di conseguenze sul piano normativo. Qualche variazione «non del tutto innocente» intervenne infatti a modificare la disciplina relativa agli SPDC, affidando alle Regioni il compito di fissarne il limite massimo di posti letto e attenuando sensibilmente il collegamento tra essi ed i presidi territoriali: ai reparti psichiatrici già esistenti negli ospedali civili – e agli apparati medici che li gestivano – erano così garantite maggiore libertà d’azione ed una più ampia autonomia rispetto alle strutture extraospedaliere (18). Fu poi aggiunto anche un ulteriore comma sui TSO, che faceva obbligo alle USL di operare per ridurre il ricorso a quelle misure, «sviluppando le iniziative di prevenzione e di educazione sanitaria ed i rapporti organici tra servizi e comunità».
Basaglia e la “sua” legge
Prima di concludere è bene tornare per un istante a Basaglia. Si è detto delle sue numerose perplessità in ordine alla riforma, manifestate ripetutamente ai giornali già a partire dagli ultimi mesi del 1977. Ancora nel maggio del ’78, senza rinunciare ad un po’ di sarcasmo, aveva dichiarato a La Stampa che la nuova legge «cerca[va] di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano al corpo. È come se volessimo omologare i cani con le banane […]. È sul territorio – aveva poi precisato – che prima di tutto bisogna intervenire. Con strutture non ghettizzanti, combattendo l’emarginazione a tutti i livelli, facendo opera di prevenzione, lottando contro le contraddizioni della società. Negli ospedali ci sarà sempre il pericolo dei reparti speciali, del perpetuarsi di una visione segregante ed emarginante» (19).
Pur non abbandonando mai l’atteggiamento critico e l’innata vena polemica che l’avevano sempre contraddistinto, più avanti Basaglia avrebbe dedicato alla legge parole ben più concilianti: «la [sua] stessa denominazione – avrebbe spiegato nel corso dell’International Congress of Law and Psychiatry – indica un mutamento del punto di vista. L’oggetto non è più, come nelle vecchie normative, la determinazione dei confini della malattia e l’identificazione delle sue categorie, ma è il trattamento della malattia ed è sulle forme e le ragioni di questo trattamento che interviene la legge […]. Dal momento che il primo comma dell’articolo 1 pone il principio che accertamenti e trattamenti sanitari siano volontari, si deduce che l’ottica è rovesciata rispetto alle normative vigenti. La necessità del trattamento sanitario obbligatorio va dimostrata, ove le altre normative la pongono come insita e definitoria della malattia mentale, oppure, nel caso della legislazione inglese, la pongono come un’eventualità insita in una forma determinata di disturbo, il “disturbo psicopatico” caratterizzato comunque dalla condotta anomala, aggressiva o chiaramente irriflessiva […]. Viceversa la legislazione italiana tende a spostare l’ottica dal comportamento al servizio. Assumendo il principio […] che è il servizio, con le sue risorse, ad identificare la malattia in qualità e quantità, il trattamento sanitario obbligatorio nelle forme della degenza ospedaliera si giustifica solo di fronte all’urgenza, al rifiuto della persona e se “non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive ed idonee misure sanitarie extraospedaliere”. Il che significa che trattamento sanitario obbligatorio come necessità indica quantomeno un doppio ordine di problemi: da un lato la difficoltà del soggetto, ma dall’altro la risposta del servizio, che ricorre al ricovero in ospedale […] in quanto non ha saputo o potuto organizzare altre misure tempestive ed idonee. Dal comportamento in quanto tale pericoloso si passa alla necessità del trattamento ospedaliero in quanto estrema ratio di un sistema di servizi che non ha organizzato sul territorio una risposta efficace al caso specifico» (20).
NOTE
(1) XIV Commissione permanente (Igiene e Sanità pubblica) della Camera dei Deputati, Relazione sul Disegno di legge presentato dal Governo, “Istituzione del Servizio sanitario nazionale” e sulle proposte di legge “Istituzione del Servizio sanitario nazionale” (Triva e altri, PCI), “Istituzione del Servizio nazionale sanitario e sociale” (Gorla e altri, Partito demoproletario), “Istituzione del Servizio sanitario nazionale” (Tiraboschi e altri, PSI), “Istituzione del Servizio sanitario pubblico” (Zanone e altri, PLI), in Camera dei Deputati, Disegni e proposte di legge – relazioni, volume XXVII, Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo, p. 3.
(2) Cfr. G. F. Goldwurm, Psichiatria e riforma sanitaria, Teti Editore, Milano 1979.
(3) Sul punto in questione, tuttavia, va sottolineata una certa reticenza specialmente da parte del disegno di legge del Governo: «nella […] riforma – notava al riguardo la Società italiana di psichiatria – l’abolizione dell’ospedale psichiatrico deve essere indicata in modo inequivocabile […]. A questo proposito si rileva che tale obiettivo sembra non venir considerato come irrinunciabile da tutte le parti politiche. Così ad esempio l’articolo 12 del progetto […] governativo sembra adombrare ancora la permanenza dell’ospedale psichiatrico fra le strutture assistenziali di secondo livello». Cfr. APC, SIP, «Documento sull’assistenza psichiatrica e la riforma sanitaria», Bologna 10 maggio 1977.
(4) Secondo i radicali la legge avrebbe dovuto indicare con precisione la specificità dei singoli trattamenti previsti come obbligatori, pena uno stravolgimento dell’articolo 32 della Costituzione. Colloquio dell’autore con Mauro Mellini in data 19 settembre 2008. Cfr. anche Camera dei Deputati, Atti parlamentari dell’Assemblea – Discussioni dal 6 dicembre 1977 al 7 febbraio 1978, Volume XIV, Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo, pp. 13.273-13.276.
(5) Camera dei Deputati, Atti parlamentari dell’Assemblea – Discussioni dal 6 dicembre 1977 al 7 febbraio 1978, Volume XIV, p. 13.356.
(6) F. Basaglia, A. Pirella, Comunicato, senza data, in Archivio ALMM. Parzialmente pubblicato in “l’Unità”, Un giudizio di psichiatria democratica, 17 dicembre 1977.
(7) “Giorno”, Basaglia contro il referendum, 19 dicembre 1977.
(8) “l’Unità”, Perché non si può parlare di fermo sanitario, 22 dicembre 1977.
(9) “Giorno”, Basaglia contro il referendum cit.
(10) Cfr. Camera dei Deputati, Atti parlamentari dell’Assemblea – Discussioni dal 6 dicembre 1977 al 7 febbraio 1978 cit., pp. 13.273-13.276.
(11) Nelle sedute dell’11 e del 12 gennaio 1978 erano stati approvati gli articoli dall’1 al 10. Le votazioni sarebbero poi riprese il 25 maggio. Non corrisponde al vero, dunque, quanto ha scritto Bruno Orsini, secondo il quale la Camera aveva già votato gli “articoli psichiatrici” della riforma sanitaria (il 30 e il 54) nel dicembre del 1978. Cfr. B. Orsini, Vent’anni dopo, in AA.VV., 180 Vent’anni dopo, La Redancia Edizioni, Albisola Superiore 1998.
(12) Nel testo unificato della Commissione si parlava più genericamente di “servizi all’interno di strutture dipartimentali”.
(13) «La fase acuta della malattia di natura psichiatrica è gestita in ospedale civile mediante l’utilizzazione di posti letto nei vari reparti di medicina. È vietata, all’interno degli ospedali civili, l’istituzione di reparti per malattia di natura psichiatrica». Articolo 16, commi 7 e 8 della proposta di legge “Istituzione del Servizio sanitario nazionale” (Tiraboschi e altri, PSI), in Camera dei Deputati, Disegni e proposte di legge – relazioni cit., p. 28.
(14) Camera dei Deputati, Atti parlamentari – Discussioni della XIV Commissione (Igiene e Sanità pubblica) in sede legislativa, Stabilimenti Tipografici Carlo Colombo, p. 211.
(15) Pirella sostiene tuttavia che l’ultimo dei tre criteri necessari per l’applicazione dei TSO («se non vi siano le condizioni e le circostanze che consentano di adottare tempestive e idonee misure sanitarie extraospedaliere») fosse stato suggerito direttamente da Basaglia. Cfr. A. Pirella, Poteri e leggi psichiatriche in Italia (1968-1978), in F. Cassata, M. Moraglio (a cura di), Manicomio, Società e Politica, Biblioteca Franco Serantini, Pisa 2005, p. 124.
(16) Segreteria nazionale di Psichiatria democratica, Documento senza titolo, in Archivio ALMM. Quanto ai TSO, le linee guida erano altrettanto esplicite: «ribadire ancora una volta, soprattutto con atti pratici, la netta opposizione di PD ad ogni forma di trattamento obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera. Si richiede un’opposizione attiva di PD nei confronti dell’attuazione dei trattamenti sanitari obbligatori, ricorrendo a strategie di risposta alternative coerenti con il patrimonio teorico e pratico di PD».
(17) A quanto pare la soluzione degli SPDC era stata “ideata” proprio dal presidente dell’AMOPI Novello, che però aveva proposto per essi un numero di posti letto pari a 30. All’interno dell’associazione non mancavano comunque posizioni assai più conservatrici: soprattutto tra i primari, ad esempio, c’era chi, per ragioni di prestigio professionale, avrebbe preferito il trasferimento negli ospedali generali delle divisioni psichiatriche da 125 posti letto istituite nel 1968 dalla legge Mariotti. Colloquio dell’autore con Eliodoro Novello in data 5 marzo 2007.
(18) Cfr. Pirella, Poteri e leggi psichiatriche in Italia (1968-1978) cit.
(19) “La Stampa”, Che dice Basaglia, 12 maggio 1978.
(20) F. Basaglia, Legge e psichiatria, in ID, Scritti, vol. II cit., p. 461-462.