#intervistandoanteo n°18 “Sabina Carulli, Psicologa, Responsabile della Comunità Terapeutica Le Recherche di Apricena, racconta gioie e dolori del lavoro che ama“.
Fra il vuoto e le regole
Ho una lunga storia con i minori, in particolare adolescenti: per 13 anni ho lavorato in comunità, case famiglia, centri di accoglienza, e ho incontrato ragazzi segnati da traumi, sottratti alle famiglie, stranieri, abusati. I miei cinque anni di tirocinio li ho svolti presso il Centro del Bambino Maltrattato di Roma.
Avevo 21 anni quando, frequentando il corso di Criminologia all’Università, sono entrata in contatto con le assistenti del docente e sono rimasta conquistata dall’idea di dedicarmi ai giovani, in particolare fra i 14 e i 18 anni, che si confrontano con esperienze di sofferenza e solitudine. Ho iniziato come volontaria, era dicembre, e a febbraio mi hanno proposto di proseguire come educatrice, lavorando presso il Centro.
Sono stata un’adolescente ribelle: cresciuta in una cittadina del Barese, mi scontravo con le mentalità rigide di mia madre e del contesto in cui vivevo; io ero per la libertà, per l’indipendenza, per esempio negli orari di uscita e rientro a casa, e ho conservato quella voce un po’ irrequieta nel cuore… Lavorando con gli adolescenti dovevo mettere in gioco una parte di me che mi stupiva, quella rigorosa, proprio riguardo al rispetto delle regole! Una sorta di paradosso!
Peraltro, non era facile, perché ero molto giovane, la differenza di età con alcuni dei “miei piccoli” era davvero ridotta, quattro anni, a volte. Mi sono dovuta vestire di maturità, confrontarmi con un ruolo che somigliava a quello giocato tante volte da mia mamma con me… e ascoltare parole simili a quelle che tante volte avevo pronunciato io: “l’orario non conta, è una questione di fiducia!”.
Per portare avanti studio e lavoro insieme, chiedevo di organizzare i turni raggruppando più giornate, e durante le vacanze e le Festività, avevo bisogno di gestire i tempi di spostamento, perché la mia vita era a Roma mentre i miei vivevano vicino Bari. Ricordo il Natale in Comunità, la vigilia, il giorno di Natale e Santo Stefano di fila. I miei genitori non erano entusiasti, pensavano a un progetto universitario lineare, cinque anni sui libri, senza rischio di interruzioni, senza sfilacciamenti e senza paure… Sono riuscita a mantenere la promessa di laurearmi negli anni previsti, perché io ero molto felice, così: ricordo quei ragazzi, la mancanza che sentivano rispetto a una famiglia che comunque cercavano e desideravano, come si cercano e si desiderano le radici, anche se quelle erano le persone che li avevano maltrattati; ricordo le emozioni, la sorpresa, il divertimento, le risate. E gli abbracci: gli abbracci li ho imparati da loro, prima non ero una persona molto espansiva, non manifestavo esplicitamente l’affetto né il dolore… Riconoscevo la loro ferita, la accoglievo… Alcuni di loro mi scrivono ancora, ho mantenuto qualche contatto: una ragazza, per esempio, è stata adottata e oggi ha quattro figli… Io, invece, di figlia ne ho una sola: ha 8 anni, è sensibile, simpatica e indipendente quanto basta… Spero si conservi così!
Un cambio di scenario radicale ma non troppo
Nel 2009, Lorella [Raggi] e Achille [Saletti] della Cooperativa “Saman”, insieme al Professor Luigi Cancrini, Direttore Scientifico in “Saman”, mi hanno proposto di avviare una comunità per minori che dovevano gestire ad Apricena, in provincia di Foggia.
Poi, nel 2013 ho cominciato a dedicarmi al mondo delle dipendenze. All’inizio, mi faceva paura la durezza dei vissuti dei miei nuovi utenti: ho una formazione sistemico-relazionale e anche criminologica, ero stata in carcere e avevo studiato le dipendenze, ma avevo comunque dei timori… Non parlerei di pregiudizi, anche se sono davvero molto diffusi, purtroppo, anche a livello inconsapevole: l’associazione fra dipendenza e scelta, propria responsabilità e colpa è molto diffusa. La mia paura era legata al rischio che dalle dipendenze non si potesse uscire, a quella modalità definita da molti “tossica”, consapevole di non voler rinunciare. La dipendenza ti annulla. È difficile trovare spunti, motivazioni reali.
Il Prof. Cancrini mi ha chiamata e mi ha proposto di lavorare come referente terapeutica della Comunità per persone con dipendenze. Inizialmente, la mia disponibilità è stata solo per alcune ore, per consentirmi di non lasciare l’incarico presso il servizio per minori. Non so quali motivazioni abbia avuto per considerarmi “efficiente” in quel contesto. Credo di utilizzare bene la mia sensibilità e forse questa è una risorsa che può risultare particolarmente utile: è come se “toccassi con mano” le mie emozioni, “sento” molto forte gli altri, il loro malessere in particolare, e “vedo” le loro risorse. È necessario fare questo, nel nostro mondo: andare oltre le etichette, vedere le capacità e le potenzialità dell’altro e riconoscere che ogni persona porta con sé e nel gruppo una storia importante.
All’inizio, mi occupavo dei progetti terapeutici al fianco degli Psicologi della Comunità, offrendo uno sguardo “altro”, non legato alle relazioni quotidiane. In quel periodo, Saman ha dunque organizzato nella Comunità tre figure distinte: un Responsabile Educativo, un Responsabile Terapeutico e un Responsabile Gestionale/Organizzativo. In seguito, si valutò di raggruppare le funzioni in una figura unica, come nelle altre strutture. Così, nel 2015 sono diventata Responsabile della Comunità di Apricena.
La Comunità come luogo di “sfida al Vuoto”
Inizialmente, mi dividevo fra Roma e Apricena, poi mi sono stabilita per un periodo qui, in questo paese molto piccolo, la cui vitalità è nelle mani degli Amministratori locali e della sensibilità del territorio; anche al Servizio per le Dipendenze (Ser.D) abbiamo sempre incontrato persone molto valide e attente.
La Comunità si trova a 5-6 chilometri dal centro del paese, ai piedi del Gargano, fra le montagne e il mare, immersa in un paesaggio meraviglioso e facilmente raggiungibile. La struttura è molto grande e offre diversi spazi di condivisione e dedicati attività riabilitative: nel seminterrato, oltre alla dispensa e alla lavanderia, in cui tutti gli Ospiti danno il proprio contributo al “funzionamento” della Comunità, ci sono un laboratorio di ceramica e argilla, la palestra, la falegnameria.
Gli Ospiti attuali hanno per la maggior parte, un’età compresa fra i 20 e i 40 anni e hanno tutti storie importanti e complesse di dipendenza (in prevalenza, da eroina, cocaina, crack e alcol); trasgressione, autopunizione, ricerca di benessere, spesso tutti impastati insieme. La provenienza è pugliese, campana e laziale, in quanto gli invii avvengono dai nostri Centri Accoglienza di Apricena stessa, di Napoli o, in via residuale, di Roma).
I percorsi qui durano in media 12 mesi, ma a volte 6-8 mesi sono sufficienti per completare un cammino già avviato prima, per esempio con una motivazione che si è fatta più solida. In ogni caso, ci vuole forza per rinunciare alla vita fuori. Ci vuole coraggio.
Le ulteriori limitazioni introdotte a causa della pandemia hanno prodotto ulteriori rinunce, soprattutto nelle relazioni con le famiglie, una dimensione che valorizziamo molto, nel nostro lavoro. Cercare le origini della sofferenza, coinvolgere figure importanti per la persona, ridefinire i rapporti e cercarli, anche quando accade di confrontarsi con negazioni del problema, sono tutte azioni molto significative da compiere.
Mi piace definire il senso della nostra presa in carico totale della persona “educazione terapeutica”: ogni Ospite ha sia un Educatore sia uno Psicologo di riferimento, terapia e “educazioni” procedono parallelamente e si integrano. Facciamo un grosso lavoro sulla fiducia, fin dal primo colloquio, il momento in cui si possono presentare in modo completo: se si fidano di noi, possiamo procedere bene, insieme. E loro possono riprendersi la vita, ridefinirsi, riorganizzare i ritmi quotidiani, tornare a percepire il valore e l’utilità delle regole.
C’è bisogno di tempo, pazienza, tatto, altrimenti veniamo visti come “controllori”: è necessario costruire una vera alleanza. Peraltro, anche fra gli Ospiti nascono conflitti legati alla dimensione della fiducia: chi ha una dipendenza oscilla tra l’affidarsi e il sottrarsi. Quando ospitavamo persone con doppia diagnosi (dipendenze e patologie psichiatriche), alcuni assumevano una postura di accudimento rispetto a questi Ospiti: era interessante osservare come alcune attitudini si risvegliassero, generando modi diversi di percepirsi e di percepire l’altro.
Tollerare il vuoto è una delle sfide cruciali de i nostri Ospiti: le giornate si snodano fra pasti, attività di riordino, gruppi e laboratori del mattino e del pomeriggio, attività individuali, cucina, lavanderia, area esterna… In passato, prima della pandemia, abbiamo realizzato esperienze interessanti con altri servizi del territorio, per esempio il Laboratorio di Teatro e la condivisione del nostro laboratorio di argilla con Centri Diurni per Disabili, accogliendo l’aiuto di persone con disabilità per allestire feste e sfilate di carnevale. I nostri Ospiti tendevano a porsi come “compagni adulti” dei disabili: era molto significativa questa opportunità, e speriamo di poter organizzare nuove occasioni di questo tipo, in futuro.
In Comunità proponiamo anche la meditazione, che non è possibile per tutti: chi vive una profonda irrequietezza, per esempio, non può trarne giovamento, mentre è più apprezzata quando c’è meno tempesta nella persona.
Di fronte al fallimento e alle fioriture
A volte le cose non vanno bene. Di fronte ai percorsi che falliscono, mi chiedo sempre: abbiamo dato risposte adeguate alla sua sofferenza? Coinvolgo il gruppo per riconoscere quanto è avvenuto e per porci insieme delle domande: abbiamo colto correttamente il suo sentire? Che cosa ci può insegnare questa esperienza? Il dolore, anche rispetto alle famiglie, è tanto.
Non sempre le persone riescono a “uscirne”: questo naturalmente non diminuisce la responsabilità propria del nostro ruolo, del nostro lavoro, ma ci deve scrollare di dosso la paura paralizzante di fallire, ci deve consentire di perdonarci e perdonare.
Poi ci sono le storie belle. Ricordo un ragazzo, un ventenne, che proveniva da un precedente percorso in un’altra Comunità. Aveva una storia di adozione, era entrato anche nel mondo dell’antisocialità e si comportava così: trasgressivo, creava conflitti e tensioni… È stato da noi circa due anni, Siamo riusciti a entrare nella sua sofferenza. Era congelato nel suo vissuto di abbandono, fra ricordi vaghi della sua famiglia biologica, dei suoi primissimi anni in istituto, poi i suoi genitori adottivi, molto accoglienti ma fragili, perché temevano che, conoscendo la storia di loro figlio potessero emergere delle “tare”. Lui cercava una via per alleggerire l’angoscia che lo pervadeva e si “curava” con la sostanza. Dopo il percorso con noi, ha ripreso gli studi universitari, è tornato in famiglia, lui e i genitori hanno imparato a comunicare e l’affetto ha cominciato a non manifestarsi più come preoccupazione o sfiducia.
Le persone con una dipendenza non è che non vogliano il cambiamento: non ce la fanno a determinarlo, a orientarsi stabilmente, concretamente in quella direzione. Ogni ricaduta e ogni trattamento diventano esperienze. E sono… semine. Non è detto che siamo noi, che sia il percorso da noi la semina decisiva. Bisogna vedere oltre ciò che ci portano, oltre il comportamento evidente. Ogni incontro autentico, se è un vero abbraccio, germoglierà: questa è la fiducia che ci è richiesta.
Oggi e domani
Oggi sono tornata a vivere nella mia terra di origine, a oltre 100 chilometri dalla Comunità, e mi sposto regolarmente per il mio lavoro qui: con un po’ di organizzazione e la resistenza che mi caratterizza, sono convinta che tutto sia fattibile. Soprattutto, ciò che si ama e che si desidera alimentare con idee e sguardi sempre nuovi.
di Roberta Invernizzi