Una nuova generazione di psichiatri che si allontana dalla riforma della ex legge 180
L’onda lunga della critica all’esperienza italiana in merito alla salute mentale si è avviata dove tutto era nato: Trieste, la città simbolo della riforma che ha visto un movimento culturale a cui ha dato voce Basaglia, oggi inverte la direzione nominando quale direttore dipartimentale del CPS (Centro Psico Sociale) uno psichiatra che non appartiene alla tradizione basagliana. Cosa significa tutto ciò? È forse ancora prematuro dividersi, in maniera così draconiana, tra basagliani e non basagliani, però è indubbio che le nuove generazioni di psichiatri, andate in pensione le vecchie, sembrano meno interessate al portato con cui la riforma ex legge 180 aveva rivoluzionato il sistema dei servizi. Un portato che spostava il baricentro della attenzione alla salute dei cittadini all’interno dei territori, sottraendolo ai grandi istituti manicomiali al cui interno si realizzava, lontano da occhi indiscreti, la perdita della speranza. I servizi territoriali, con la loro presenza diffusa, avrebbero dovuto abbattere la visione stigmatizzante che la follia ha sempre recato con sé e soprattutto accompagnare, in termini di relative autonomie di vita e di normalità, le esistenze di coloro che soffrivano di scompensi psichici.
Un equilibrio terapeutico che vacilla
Non sappiamo, effettivamente, se il primario scelto da Regione Friuli Venezia Giulia manterrà o meno questa impostazione, anche se ci riesce difficile ipotizzare che la sua nomina significhi un ritorno al passato. Quello che ci preme sottolineare riguarda, al contrario, la messa in discussione di un equilibrio terapeutico tra diverse professionalità che la legge Basaglia assicurava grazie alla impronta culturale di cui si faceva portatrice. Un equilibrio composto da un’azione farmacologica e da un’azione di ascolto e accompagnamento riabilitativo capace di umanizzare gli interventi sulle persone a partire dal fatto che venivano attuati coinvolgendo reti familiari e amicali. Messa in discussione che, va detto, non necessitava della polemica triestina per emergere, in quanto già in atto da anni in quasi tutto il nostro paese. In poche righe sarebbe presuntuoso volere sviscerare questo argomento, ragione per la quale ci limitiamo a segnalare che l’intervento farmacologico è sempre più presente e sempre meno accompagnato da altre dimensioni terapeutiche. Credo non si possa negare che l’impoverimento progressivo del settore psicosociale sia un dato di fatto quasi che le funzioni di ascolto e di accompagnamento riabilitativo e/o educativo abbiano perso centralità ai fini della cura della persona.
Il lento spegnersi dell’attenzione al “mondo dei matti”
La scienza ha fatto progressi enormi, e con la scienza anche la ricerca farmacologica: l’efficacia di un farmaco è notevole se veicola lo scompenso di un paziente verso una relazione terapeutica che permetta allo stesso di acquisire maggiore consapevolezza in merito agli agiti che derivano da pensieri destabilizzanti. Senza questo secondo pezzo, il farmaco ha una indubbia efficacia che, però, non si traduce in una traiettoria dinamica ma congela la persona all’interno del suo esistere. Affidare al solo farmaco la propria speranza di stare meglio è vantaggioso nell’immediato ma mortificante nel medio e lungo periodo. È un percorso di libertà, quello propugnato dalla riforma Basaglia e, semmai, la critica severa che si può riservare, riguarda il fatto che troppo poco si è investito in questo percorso. Nell’effettivo equilibrio tra terapie farmacologiche e terapie psico sociali, coinvolgimento dei cittadini e di quel ricco substrato di attivismo a cui ogni centro urbano dà vita. Il nostro timore riguarda proprio il lento spegnersi della attenzione al “mondo dei matti”, e il fatto che i CPS possano diventare dispensatori di farmaci e null’altro. Che una esperienza così ricca di operatori che hanno dedicato la vita ben oltre l’orario di lavoro si riduca a questione prevalentemente politica, o peggio, di spesa pubblica.