Raccontare il disturbo bipolare
Il disturbo bipolare è una patologia complessa, di cui si parla poco. Secondo le statistiche dell’NIMH (National Institute of Mental Health) il disturbo bipolare interessa circa l’1% della popolazione al di sopra dei 18 anni, con una distribuzione uguale tra i due sessi. Di solito il primo episodio del disturbo si sviluppa nella tarda adolescenza o nella prima età adulta (19-29 anni), per poi presentarsi più o meno frequentemente nel corso dell’intero arco di vita. Vi presentiamo qui di seguito due letture sul tema. La prima, di taglio autobiografico, è una sorta di “diario coraggioso” che racconta la battaglia che l’autrice – Marya Hornbacher – “combatte per trovare una via d’uscita da una pazzia che la distrugge”. La seconda è una graphic novel di Lou Lubie, in cui la ciclotimia (un sottotipo di disturbo bipolare) prende le sembianze di una volpe.
Mary Hornbacher, Una vita bipolare. Oltre i confini della normalità, Corbaccio, 2008
Una lettura coinvolgente e sconvolgente, non consolatoria ma certamente in grado di farci accostare a forme di sofferenza stranianti che possono colpire persone a noi care e nostri utenti. La diagnosi irrompe nella vita di Marya quando ha 24 anni, nel libro a pagina 79.
Il suo racconto, dedicato ai genitori e privo di ogni ipocrisia e pudore, ci accompagna attraverso i vertiginosi picchi e crolli della sua condizione mentale ed emotiva: il cibo, i farmaci e l’alcol, il sesso e l’amore, il mondo intero le appaiono come amici e nemici insieme, strumenti per stordirsi e per tentare di controllare un’esistenza faticosissima, fatta di una continua attività di “autosorveglianza” e costruita sulle bugie quotidiane richieste da ruoli che ingabbiano e rassicurano insieme (moglie, scrittrice, amica brillante, lavoratrice eccellente).
C’è molto corpo, nella narrazione, ci sono la morte come tentazione di fuga da se stessi, la confusione della frenesia e poi l’apatia dello sfinimento, il complicato rapporto con il sonno e con il tempo, i professionisti della cura che ascoltano, denominano e tentano (“Lavorare con i matti è estenuante. Chi lavora nell’ambito della salute mentale si brucia in fretta, e alcuni continuano a lavorare ma cominciano a odiare i pazienti, che se ne accorgono”, pag. 211; “Lo scopo dei miei medici, alla fin fine, è farmi tornare a una vita normale; be’, non tornare, perché non ho mai avuto una vita di quel genere, ma costruire le capacità che mi aiuteranno ad agire a un livello per me accettabile”, pag. 280), ci sono Jeff e Megan e c’è anche Dio, qua e là.
Più di 300 pagine che scandiscono cronologicamente le fasi di malattia di Marya, che si definisce in tanti modi (per esempio, “un sassolino levigato dalla corrente”), le oscillazioni fotografate a colori forti, la sequenza dei ricoveri, pagine che fanno male, ma soprattutto trasmettono il senso di un dolore difficile da comprendere se non si passa attraverso una storia vera come quella di Marya. L’ultima parola della storia? “Mia”.
Lou Lubie, La mia ciclotimia ha la coda rossa, Comicout, 2017
Un racconto schietto, anche in questo caso autobiografico: siamo in Francia e seguiamo la storia di una ragazza creativa e brillante che, attraverso varie “ricerche” in termini di autoanalisi e di contatti con diversi terapeuti, giunge a comprendere le ragioni del suo malessere e a conoscere con una parte scomoda di se stessa.
Il tono della narrazione è serio ma anche alleggerito da una costante autoironia, che si rivela un efficace supporto nel percorso esistenziale di Lou, chiamata a mettere in campo tutte le sue risorse (e anche di più) per far fronte a … una “volpe”: “Sette anni a subire i suoi attacchi, otto specialisti incapaci di accordarsi su una diagnosi, e continuavo a non sapere che cosa mi tormentava. Alla fine qualcuno ha acceso la luce. E nel profondo di me c’era… una piccola volpe” (pagg. 35-36).
Questa è la rappresentazione che Lou sceglie per descrivere la sua ciclotimia e relazionarsi con essa come a una parte di lei. Il dialogo che si sviluppa fra le due vede la volpe nel ruolo di colei che è depositaria della conoscenza circa il “temperamento ciclotimico” di Lou, glielo illustra nelle sue componenti di predisposizione genetica e chimiche e nei suoi orientamenti evolutivi nel corso della crescita della persona, verso il disturbo ciclotimico, così come nelle sue principali aree di incidenza (umore, pensiero ed energia e, di conseguenza, le relazioni, in particolare quelle amorose, la tendenza ad abusare di alcol e sostanze, il rischio di sviluppare dipendenze comportamentali legate al cibo, al gioco d’azzardo e agli acquisti compulsivi).
La volpe chiede “rispetto” nell’ambito di un rapporto che rischia di essere costantemente burrascoso e giocarsi fra accuse e rifiuti: trattandosi di una vera e propria convivenza, la via che è necessario percorrere è proprio quella (ardua ma possibile) della conciliazione e dell’equilibrio.
Il graphic novel di Lou, tradotto da Boris Battaglia, non pretende di essere terapeutico, ma sicuramente aiuta ad acquisire una preziosa consapevolezza di sé e della classificazione che è stata strutturata per i disturbi bipolari e che sostanzia i percorsi di cura; peraltro, contiene anche alcune strategie di fronteggiamento del malessere che, anche in forza delle illustrazioni, semplici ed efficaci, rappresentano ottimi spunti di riflessione. Anche il tema del suicidio è affrontato con delicatezza e concretezza insieme, senza edulcorazioni pelose. Così come la questione dello stigma sociale.
L’esperienza di Lou alla ricerca di una diagnosi certa e di una terapia adeguata è quella di molti: un’alternanza di speranze e delusioni. Tuttavia balza in primo piano il fatto che Lou ha compiuto la scelta giusta cercando aiuto ed esponendo eventi e stati d’animo, in ogni occasione, con trasparenza e fiducia: senza questa apertura, infatti, è impossibile qualsiasi cura e qualsiasi cammino verso un benessere che avrà connotazioni inevitabilmente e squisitamente individuali. Perché le volpi non sono certo tutte uguali!