Libertà dietro le sbarre: la meditazione in carcere

Perché praticare meditazione in carcere? Quella che sembrerebbe una novità è invece una realtà consolidata in vari penitenziari di tutto il mondo, soprattutto di quello occidentale ma anche in India e in altri Paesi. Quando ho seguito il corso del PYP (“Prison Yoga Project”), un’associazione che forma insegnanti di yoga in carcere in America e in Europa, ero in effetti interessato all’aspetto prevalentemente meditativo dello yoga, che ho sempre privilegiato nella mia pratica ormai ventennale. Al PYP ho imparato soprattutto che cosa non si deve fare nella relazione con i detenuti, le cose da non dire e gli esercizi da non fare (ad esempio quelli con le mani dietro la schiena, o sollevate di fianco alle braccia, poiché possono ricordare i momenti traumatici dell’arresto). Ho imparato perché a certi allievi risulta difficile togliersi le scarpe e che certi esercizi di respirazione possono essere controindicati, e così certe posizioni. I motivi sono tanti poiché, dagli stati di ansia o di rabbia all’uso esagerato di tranquillanti, vi è tutto un menù di elementi che interagiscono negativamente con certe posture o stati di rilassamento. Le conseguenze possono essere difficili da controllare. Ho imparato anche che i detenuti non vanno trattati come teiere fragili, e che bisogna sempre rispondere con il cuore.

Regole base della meditazione in carcere

Chi vive in carcere ha molto tempo da trascorrere ma poco da perdere. Nei tre anni di esperienza alla casa circondariale di Verona, insieme a un gruppo di insegnanti che tengono un corso anche nella sezione femminile, ho tentato di creare una raccolta di meditazioni e di esercizi facili ed efficaci. Il nostro corso è particolare, poiché fa parte del progetto “Cavalli in carcere” di Horse Valley di Verona. Pratichiamo all’aperto, nel cortile interno, attorniati da cavalli, pecore e galline. Un contesto stranamente bucolico e infinitamente più favorevole di uno stanzone asettico. La prima regola, almeno in base alla mia esperienza, consiste nel scegliere pratiche abbordabili (cioè semplici e non faticose), non troppo lunghe (la soglia di attenzione è quasi sempre bassa, almeno inizialmente) e in grado di produrre effetti velocemente verificabili (la pazienza va costruita poco per volta, non la si può dare per scontata). In questi tre anni, tuttavia, non ho cambiato idea sulla priorità dell’aspetto meditativo degli incontri. Non so se la mia scelta sia la più efficace in un contesto carcerario ma so che funziona. A patto che gli allievi vogliano impegnarsi a riconoscere una parte di sé che in molti casi non hanno mai saputo di avere.

Resistenze alla meditazione in carcere

Sono tante le ragioni per cui un detenuto può ritenere totalmente estranea la pratica della meditazione. Oltre a certe resistenze che sono le stesse di chi vive fuori dal carcere,  ad esempio l’idea che lo yoga sia destinato alle donne o a persone deboli e insicure, o che si tratti di una pratica religiosa travestita, o che la meditazione rubi spazio al movimento fisico, un detenuto si ritrova ad affrontare resistenze interne che lo portano a rifiutare la pratica a causa dei vari acciacchi fisici, o a vergognarsi di un esercizio di meditazione o di semplice respirazione (“se pratico in cella mi prendono in giro e perdo il rispetto altrui, che mi sono faticosamente costruito”), percependolo come parte di quel processo di infantilizzazione a cui è continuamente sottoposto dall’ambiente in cui vive, che non gli lascia spazio di scelta su nulla. La meditazione può aiutarlo a ritrovare quello spazio.

Il trauma è al centro dell’esperienza carceraria

Per condurre incontri di meditazione in carcere bisogna tenere anzitutto presenti questi elementi, ma ce n’è uno più rilevante: il trauma. Da studi accreditati risulta che oltre l’80% delle persone incarcerate ha subito dei traumi. O durante l’infanzia (ad esempio violenza domestica o abbandono) o in età adulta (scene di violenza, azioni di guerra, crimini sessuali). Secondo lo psichiatra Bessel van der Kolk, il trauma è al centro dell’esperienza carceraria (l’arresto è la ciliegina sulla torta di una esistenza vissuta al passato), e anche in questo contesto può essere riacceso da associazioni involontarie che riportano la persona all’evento traumatico, e quindi a un passato dal quale non si è mai in realtà staccata. Insegnare meditazione in carcere significa quindi, oltre che motivare i partecipanti smontando le false credenze su questa pratica, fare in modo che l’esperienza possa accadere in un contesto sicuro. Soltanto così i partecipanti agli incontri potranno sentirsi sufficientemente al sicuro per potere riprendere contatto con il corpo, con il respiro e in generale con la consapevolezza di sé.

Svuotare la mente

Il Kundalini Yoga offre una quantità sterminata di pratiche che lavorano su rabbia e altre emozioni distruttive, o che sono rivolte a rafforzare l’equilibrio emotivo: il comune denominatore è il controllo del sistema nervoso. Avere carattere e mente calma. Non a caso si lavora spesso per svuotare la mente, che in carcere è una delle tante radio sempre accese. Per il resto la popolazione carceraria presenta le stesse difficoltà di quella esterna. Ormai apparteniamo tutti a una qualche ‘popolazione a rischio. Nel nostro corso vogliamo che l’esperienza della meditazione mostri come, invece di restare in quella popolazione, sia possibile uscirne per aiutare gli altri ad uscirne. Sembra un po’ evangelico ma funziona.