PICCOLA NOTA DI METODO

Anteo è l’insieme delle persone che ogni giorno lavorano per far funzionare al meglio i servizi rivolti a persone che vivono varie forme di fragilità. In questo spazio, incontriamo storie, esperienze di lavoro e quindi di vita, che alcuni Colleghi generosamente mettono in comune con tutti noi. Questi testi nascono da interviste condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni dall’interno di un ruolo che è sempre ben più di un abito che avvolge un corpo. Non troverete un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce permanenti che ha lasciato ogni incontro di intervista, ogni intreccio di sguardi accaduto in uno spazio e in un tempo definiti.

#intervistandoanteo n°5 “Quando la badante vive insieme all’anziano che assiste”

 Da circa un anno, si parla molto di RSA: la pandemia, infatti, ha rappresentato anche un’occasione per riflettere sull’organizzazione dei servizi residenziali per anziani, per migliorarli e renderli sempre più sicuri, e sulle opzioni alternative all’ingresso in case di cura, in particolare per coloro che sono in condizione di essere assistiti a casa e desiderano percorrere questa via il più a lungo possibile.

Anteo Impresa Sociale ha sviluppato competenze ed esperienze nella ricerca di assistenti familiari e nella realizzazione di incontri fra domande e offerta ottimali: l’impegno è quello di individuare la persona “giusta”, quella in grado di soddisfare le esigenze dell’anziano e di rispondere alle aspettative della sua famiglia, costruendo giorno per giorno un rapporto di fiducia essenziale per il benessere della persona fragile e del sistema di affetti e relazioni in cui vive. Un servizio in cui crediamo molto per il valore che è in grado di generare nella comunità locale, a favore di una rinnovata sensibilità rivolta alla terza e alla quarta età, sulla base di relazioni di cura spesso profonde e semplici insieme.

Abbiamo incontrato Fatima, Assistente Familiare per Anteo da più di 10 anni, che ci ha raccontato la sua esperienza di lavoro e di vita. La sua visione di un ruolo in grado di migliorare la qualità della vita degli anziani in una stagione delicata e preziosa.

Gli inizi

Quando sono arrivata qui non sapevo neanche una parola di italiano: sapevo che era una lingua complicata, non l’avevo mai studiata, non avevo mai sentito nessuno parlarla… Così, ho preso dei libri, ho guardato dei film, ho parlato con le persone, scoprendo una frase per volta… Mi ero sposata in Marocco ma il mio matrimonio è andato male, avevo sofferto molto. Ero abituata a vivere con i miei genitori e mi sono trovata all’improvviso da sola. È stato uno shock. E ho dovuto trovare una via per vivere. Le brutte strade non facevano per me, i miei genitori mi hanno insegnato altro: per questo ho cominciato a lavorare come badante.

L’idea di fare questo lavoro, quindi è nata perché avevo bisogno. Non avevo tempo di fare corsi impegnativi. Poi mi sono trovata bene e ho scelto di proseguire. L’esperienza mi è piaciuta perché mi sono trovata bene con le persone che ho assistito: sono loro che mi hanno fatto amare questo lavoro. A me piace aiutare le persone. Lo faccio con il cuore. Certo, è un lavoro, ma lo faccio con il cuore. Penso alla famiglia e ai suoi bisogni, soprattutto quando mi fanno capire che mi vogliono bene.

Vengo dal Marocco e ho 30 anni. Sono arrivata in Italia nel 2010, perché avevo problemi familiari, e da allora lavoro in Anteo. Le assistenti sociali che mi seguivano e Silva (Gubernati, la referente del servizio assistenza familiare Anteo; n.d.r.) mi hanno aiutata a capire che questo era il lavoro giusto per me. All’inizio, lavoravo nel fine settimana: la prima persona che mi è stata affidata era una signora con problemi psichiatrici che nel corso della settimana era seguita da una mia collega.

Tanti incontri, tante situazioni diverse

Poi, sono stata inserita in un’altra famiglia. L’impegno è stato graduale: in un primo periodo facevo assistenza di notte, all’ospedale, perché la signora aveva subito un intervento per un tumore all’intestino. Le OSS dell’ospedale mi hanno permesso di imparare: mi occupavo io dell’igiene ed è stata una sorta di corso di formazione, perché loro mi spiegavano e io facevo. La signora aveva quasi 80 anni e, dopo le dimissioni dall’ospedale, ho avuto modo di proseguire l’assistenza notturna, dormendo in una stanza vicino a quella in cui dormiva con il marito. Di notte a volte mi chiamavano per svuotare la pipì dal pappagallo del marito, per esempio. Avevano un campanello per segnalarmi se non stavano bene o avevano bisogno; li sentivo, in ogni caso, perché ero vicina e attenta: il campanello era una sicurezza in più. Mi occupavo delle medicine sia per il marito sia per lei. Facevo anche le pulizie in casa, lavavo i piatti, riordinavo. Al mattino mi alzavo prima di loro per preparare la colazione, portavo il cane a passeggio, facevo la spesa e poi arrivava una collega. Parlavamo molto, lei mi raccontava della sua vita e io della mia. Della nostra giovinezza. Ci volevamo tanto bene.

Mi è capitato di assistere una signora di 103 anni; ricordo che al pomeriggio, quando facevamo merenda, mi parlava tanto di sé. Un giorno è morta. Quando sono andata al pronto soccorso per salutarla, ho avuto una specie di attacco di panico: era la prima volta che vedevo un morto e non ce l’ho fatta.

Un’altra volta, ho dovuto dormire con una signora e con il marito, che era morto, in casa: avevo paura, ma lei aveva bisogno di me. Mi ha chiesto di starle vicino e farle coraggio. E io l’ho fatto.

Poi, ricordo un signore che era una persona davvero speciale. Gli facevo da mangiare, pulivo la casa, preparavo le medicine (ne prendeva tante!), gli misuravo la febbre e la pressione. Aveva 86 anni ed era rimasto solo, vedovo. Facevamo le passeggiate per andare a prendere il pane insieme. Parlava sempre bene di me con i familiari, mi avevano anche invitata a festeggiare con loro il Natale. Mi lasciava organizzare la giornata, si fidava. Non è sempre così, non è scontato: è qualcosa che si costruisce piano piano.

Prima di morire, questo signore è stato molto male. Una notte ho dovuto chiamare la guardia medica. Ho chiamato un suo familiare e ho dovuto avvisarlo che poteva non superare la notte; ha risposto che sarebbe venuto il giorno dopo. Mi ha fatto male, perché era una situazione disperata. Alla fine è arrivato in tempo, perché dal pronto soccorso gli hanno confermato l’urgenza. Intanto io tenevo la mia mano sulla sua e lui diceva: “sei la mia carissima Fatima”. Ho dormito vicino a lui, ogni tanto lo guardavo. Poi a un certo punto non c’era più. Era mattino presto. Lui ha smesso di respirare. Io ho pianto e sofferto molto. Per una settimana sono stata molto male. Avevo vissuto con lui per quasi due anni, guardavamo la tv, a volte ballavamo, mi raccontava della moglie che non c’era più e della musica (suonava diversi strumenti).

Le difficoltà, le meraviglie

Oggi mi occupo di un signore di 81 anni. Vivo a casa sua, in una stanza dedicata per me. Scrivo i parametri da comunicare al suo medico, faccio e rifaccio il letto, pulisco la casa, cucino, poi lui fa il riposino, preparo merenda, lo porto a passeggio… Tutti i giorni ci sono riti regolari, che danno sicurezza, fanno sentire le cose sotto controllo.

Alcune persone che ho seguito all’inizio erano autosufficienti e poi hanno perso piano piano le loro autonomie. Queste situazioni sono molto dure. Per gli allettati l’igiene è da curare con la massima attenzione; mi è capitato di occuparmi dell’idratazione e della nutrizione artificiale. Ho seguito il percorso di peggioramento. Mi è capitato di gestire le emergenze e chiamare l’ambulanza. Con le persone malate di Alzheimer, poi, il dialogo non è sempre facile, a volte si arrabbiano senza motivo, pizzicano o insultano. Ma io so che non lo fanno certo per cattiveria: è la malattia. Allora cerco di distrarli, di farli disegnare, di guardare la televisione insieme o di giocare con le carte, anche senza sapere le regole, e poi li porto fuori. A una signora, per esempio, piacevano tanto gli animali: quando aveva delle crisi, le facevo vedere i documentari in TV. Li guardavano insieme, una vicina all’altra.

Con amore

Questo lavoro devi farlo con amore, non solo per i soldi. Io la penso così. Non immaginavo di fare questo lavoro: l’ha scelto la vita, all’inizio, non l’ho scelto io. Ma non mi è mai piaciuto lavorare nei bar, nei ristoranti o nei negozi. Fin da piccola aiutavo le persone, facevo la spesa, per esempio: quello mi piaceva. Sono lavori più duri di altri perché si soffre. Si piange perché ti affezioni, soprattutto se rimani con la famiglia per anni. Ricominciare da capo con un’altra famiglia, quando la persona che assisti muore, è doloroso.

Il contatto con gli anziani l’avevo già da piccola, con i miei nonni, i vicini, gli anziani del paese: mi sentivo legata a loro perché mi dimostravano il loro affetto. Il bene che dimostrano gli anziani è speciale. Anche con le parole: ti dicono “gioia”, “riposati, non stancarti”… Ti senti apprezzata. A volte sono più duri, altre volte ti danno più fiducia. È importante mantenere le persone pulite, eleganti, e i familiari sono contenti quando vedono questa cura. Gli anziani riconoscono le persone serie e quelle furbe: lo sentono. Sentono il bene quando c’è. Lo vedono perché c’è disponibilità disinteressata, non solo legata al dovere, al lavoro. Quando “divento di famiglia”, mi fanno sentire meno sola. Ecco: lavorando con gli anziani sento che non sono sola.

Tanti pensano sia un lavoro semplice e invece diamo la nostra anima, offriamo la nostra pazienza, li vogliamo contenti e sereni, stiamo vicini anche quando non è facile. È importante parlare con loro delle cose che piacciono a loro, delle cose che sono importanti per loro, per esempio del lavoro che facevano, per sorriderne insieme e dimenticare i motivi di fastidio o di rabbia. Una signora di cui mi occupavo amava essere truccata con cura, e io lo facevo; quando è stata ricoverata in ospedale, la chiamavano Cleopatra, e lei era divertita da questo. Bisogna ascoltare e ricordare. E osservare, per imparare, sempre. È una grossa responsabilità. A volte non si percepisce dall’esterno.

Ricordo la prima volta che il signore che seguivo si è sporcato: mi ha chiamata la moglie per chiedermi un aiuto, io sono andata e gli ho fatto la doccia, tutto da sola, ed è andato tutto bene. Quando la persona ha problemi psichiatrici ci possono essere difficoltà in più: alcuni sono aggressivi senza motivo e allora diventa difficile fare le cose insieme, perché la persona non collabora. Alcuni non accettano il fatto di essere infermi. Capita allora di fare la doccia nel letto, con tutte le avvertenze necessarie, o di lavare i capelli in un altro momento rispetto a quando lo avevi programmato, per non stancare troppo l’anziano. Oppure devi fare attenzione che chi soffre di demenza non scappi mentre tu magari stai cucinando. A volte è più complicato, ma insieme si riesce a fare tutto.

“Se fai questo lavoro, ti devi dedicare”

La mia libertà è pochissima: se fai questo lavoro, ti devi dedicare. I giorni di ferie sono importanti perché altrimenti ti stanchi troppo e non riesci a lavorare bene. Le cortesie extra, anche fuori orario, capita di farle, ma i giorni di festa sono necessari, perché la mente si stanca perché soprattutto le persone con Alzheimer ti ripetono tante volte le stesse cose, se si arrabbiano devi trovare ogni volta un modo per calmarli, cambiando discorso, rasserenandoli… A volte devi anche mediare all’interno della famiglia perché capita che i figli, senza volere, portino agitazione. Servono tante energie e devi averle.

Quando posso vado a trovare i miei genitori in Marocco. Qui ho una zia. Poi, nel tempo libero pulisco la casa: ho poco tempo per farlo, perché mi dedico alla casa degli altri. Ho anche alcune amiche in città qui vicino. Anche loro fanno questo lavoro e ci accorgiamo, parlandone fra noi, che quando “stacchiamo” un giorno alla settimana torniamo con una grande voglia di lavorare.

Domani

In futuro, mi vedo ancora in questo ruolo. Mi piacerebbe continuare a fare questo lavoro. L’importante per me è che io stia bene con il malato e che riesca a fare le cose giuste per lui. Per farlo stare bene. O almeno meglio.

 

di Roberta Invernizzi