L’infermiere è un modo di vivere che dura per sempre: chi è al servizio non può esserlo a intermittenza o a scadenza.
L’infermiere spesso si scopre o diventa tale per aver sperimentato la sofferenza di un lutto, magari dopo la lunga malattia di una persona cara: l’incontro con un modello diventa motore di un progetto di vita. Altre volte tutto parte da uno slancio istintivo che porta ad aiutare chi si vede in difficoltà, senza un’investitura, senza una ricompensa.
L’infermiere sa perché studia e impara, ogni giorno.
L’infermiere sa che cos’è la responsabilità: sceglie se consentirsi di piangere o no, in funzione del bene del paziente (mescolare lacrime può essere confortante o disperante); impara a difendersi emotivamente perché è indispensabile mettersi in sicurezza per poter aiutare; rispetta il ritmo del passo di chi accompagna, il silenzio di chi non ha voglia di dialogo come la necessità di chi desidera compagnia perché la solitudine lo atterrisce.
L’infermiere sa che cos’è la dignità, lo legge anche negli occhi dei pazienti che non riconoscono più i loro corpi inefficienti, dolenti, alieni. E sa che cos’è la libertà: la vede scivolare via dai corpi malati ma la aiuta a restare nelle anime con le quali dialoga.
L’infermiere sa aver paura perché la paura protegge, anche dal rischio della superbia e dalla presunzione di onnipotenza.
L’infermiere sa che cos’è la fiducia: la offre e la chiede, la fa germogliare, in un istante o nel corso di mesi.
L’infermiere traghetta informazioni ed emozioni: è maestro di linguaggi.
L’infermiere traduce le parole del medico in parole più comprensibili, a volte anche più accettabili: dopo la comunicazione di una diagnosi, alimenta il dialogo nel tempo, un passo alla volta, come è possibile per il paziente. L’infermiere aiuta a farcela.
L’infermiere interpreta le contrazioni dei muscoli, le espressioni dei volti, i movimenti delle palpebre; coglie il dolore (e si adopera perché sia portato e mantenuto sotto controllo), coglie il sollievo (e lo coltiva).
L’infermiere indossa i protocolli e le procedure come la divisa e i dispositivi di protezione: li fa suoi, li declina attraverso la sua persona intera, in un modo che sarà sempre solo suo.
L’infermiere osserva, scruta, memorizza, analizza, riflette; compone un ritratto del malato, non della malattia. perché guarda e tocca i corpi, gli arti e gli organi anche in controluce, per comprenderne i messaggi.
L’infermiere ascolta, esercitando la difficile arte della sospensione del giudizio. E tiene traccia di tutto nei documenti, riscaldandoli di umanità, regalando tre dimensioni a parole che rischiano di essere formule piatte.
L’infermiere educa all’accettazione (che non è rassegnazione passiva ma accoglienza attiva) del dolore, della lentezza di una convalescenza, dell’incertezza di un decorso, dello sconcerto di una ricaduta, della disabilità, della morte.
L’infermiere accompagna alla vita, nella vita e alla morte; impara ad affrontare il morire, lento o improvviso che sia, di un neonato come di un grande anziano; impara a lasciare chi muore e a stare accanto a chi resta. E deve sostare anche presso l’idea della sua, di morte, perché sia un’esperienza in qualche modo pensabile, rappresentabile e così collocabile nella dimensione della condivisione.
L’infermiere vince sempre perché si prende cura dell’altro e chi si prende cura dell’altro, concentrandosi sugli “amici” più che sui “nemici”, non conosce sconfitte.
L’infermiere fa tutto questo ogni giorno, negli ospedali, negli ambulatori, nelle residenze sanitarie, nelle case, in tempi di emergenza come in tempi di ordinario impegno. Con straordinario impegno.
L’infermiere non si sente un eroe: è una persona, è un professionista. Ed è stanco degli stereotipi e delle banalità (il confronto con altre figure sanitarie, i luoghi comuni da barzellette). Non occorrono la retorica o fruste metafore per omaggiarlo: basta il rispetto, quello vero.
Da tutti noi, non solo oggi… GRAZIE!
Ho la fortuna di aver incontrato molti infermieri per i progetti di medicina narrativa cui ho partecipato. Oggi ringrazio in particolare quattro infermiere che, chiacchierando con me della loro professione, mi hanno aiutata a capirne qualcosa in più: Monica, esperta di primary nursing, un modello che pone al centro dell’assistenza la relazione individuale tra infermiere e paziente; Elisa, “esperta di albe”, e Valentina, “esperta di tramonti”, che lavorano rispettivamente nei reparti di Neonatologia e Cure Palliative; Chiara, esperta di prossimità, che non era ancora maggiorenne quando ha cominciato ad occuparsi di assistenza agli anziani, poi è diventata OTA, poi OSS, infine Infermiera. Ed è una mia collega della cooperativa Anteo.