Ilaria Scarioni, Quello che mi manca per essere intera, Mondadori, Milano, 2017
La diversità di un corpo scomodo e imperfetto, in compagnia di desideri, fantasmi e occasioni di amore.
Sono trascorsi quasi tre anni dal mio incontro con Ilaria, in una libreria di Vercelli, e con la stessa emozione riprendo in mano questo libro per proporvelo. Avevo letto scrupolosamente queste 200 pagine che proprio non ti viene da contare, compilando nel frattempo una sorta di mappa dei concetti e delle parole che mi avevano colpita di più, per non perderli, inaugurando quella che poi sarebbe diventata una mia abitudine.
Infanzie dolenti, desideri “normali”
Siamo in una Genova molto amata e descritta con schiettezza, una sorta di coprotagonista della storia. Quasi alla pari con Bianca e con il Corpo. La trentenne Bianca racconta la sua vicenda di malattia e di cura, intrecciandola con quella di Giannina Gaslini, Nina, svoltasi circa un secolo prima e terminata con la sua precocissima morte.
Una malattia congenita ha deformato le mani, i piedi e le gambe di Bianca; il suo percorso di cura sarà fatto, fin dalla nascita, di pratiche e sedute di fisioterapia dolorose, protesi, ingessature e medicazioni; lunghi ricoveri lontana dalla “normalità” dell’infanzia, giri visite e “ispezioni” di verifica delle reazioni alle terapie. Il mare laggiù, fuori dalla finestra.
I ricordi e i sentimenti della Bianca bambina ti colpiscono dalla pagina proprio lì, in pieno stomaco: c’è la rabbia che nasce dal non capire, dall’accettazione passiva (che sembra obbligatoria) di una lotteria dal funzionamento incomprensibile; la paura, condivisa in silenzio con gli altri bambini; c’è la vergogna nel mostrare la propria nudità e nel condividere forzatamente l’intimità dei bisogni fisiologici; ci sono il senso di abbandono (nonostante la presenza amorevole della famiglia) e il senso di inadeguatezza, che sembra destinato a non sciogliersi mai; e c’è il dolore del cuore, acuto quanto quello degli arti martoriati, che si riverbera all’interno della famiglia.
La comunità di bambini dalla “carne difettosa”
La comunità di bambini dalla “carne difettosa” (che popolerà per sempre, in forma fantasmatica, l’esistenza di Bianca) vive di piccole complicità ma anche di paragoni crudeli, di quell’inconfessabile sollievo, la sensazione di “averla scampata bella”, che nasce dalla vista di chi è “messo peggio di te”. Ma la struggente storia della piccola Angelina, la schiena accartocciata in una “architettura impazzita”, odora di destino ingiusto e, insieme, di profonda prossimità: un ricordo indelebile, per Bianca, che la prendeva in braccio, con una tenerezza disperata.
E, crescendo, pungerà sempre di più il desiderio di indossare scarpe “da donna”, quelle con il tacco, di mostrarsi con sicurezza alle feste, di non sentirsi sconfitta e inadeguata, di avere una vita sessuale piena, appagante, rassicurante e in qualche modo “risolutiva”, di non doversi “accontentare”, come sembra che si aspettino tutti, a partire dai medici.
Declinazioni diverse della professione medica
Bianca, che di medici ne ha dovuti incontrare molti, ha deciso di diventare una di loro. Una specie di naturale conseguenza della sua infanzia, pensa. Tanto che, sotto il camice, conserverà sempre le braghe del suo pigiama di paziente, in una mescolanza di ruoli che sembra l’essenza della sua identità.
Bianca ritrae alcuni dei medici che ha conosciuto e che l’hanno diversamente ispirata, trasformandoli in archetipi fra milioni possibili.
Mario Francesco è un oncologo; si dedica ai suoi pazienti senza fretta, con una naturalezza che sembra ignorare anche la paura della morte; e una sera condividerà con Bianca una piccola esperienza, un breve tempo di non lavoro certo non inessenziale rispetto al tema della Vita.
Poi c’è “La Prof”, simbolo di un rigore freddo e amaro, di una durezza equamente dispensata a tutti i suoi pazienti. Perché nella sua interpretazione del ruolo di medico è necessario “far tacere il cuore”, per restare “lucidi”.
Il Dottor G. è l’incontro più significativo della Bianca paziente: di lui non vi anticipo nulla, perché, soprattutto alle pagine 144-148 e poi 183 e 184, troverete parole che vale la pena di scoprire senza presentazioni.
Il senso
Crescendo, Bianca diventa una cercatrice di senso sempre più tenace. Per trovare un significato in ciò che le è accaduto; per dare una direzione alla sua vita tutta da plasmare, fra confini che si mostrano meno rigidi di quanto temesse.
Così come Gerolamo Gaslini, il padre di Nina, ha costruito un ospedale per sopravvivere alla morte della sua bimba, anche Bianca costruisce per convivere con il suo corpo e la sua storia. Prima si nutre di fantasie e sogni per sopportare i lunghi ricoveri, poi lavora sodo per indossare il camice di medico; infine, accetta la sfida terrorizzante dell’amore. Un lavoro introspettivo mai pago e la relazione con Cesare conducono Bianca verso un’interezza che sembra sempre destinata a sfuggire.
Rimane, infatti, la minaccia di un “Buco Nero”, di un vuoto che divora. Una tenia voracissima, una voce che suggerisce che “nessuno vuole stare per sempre con uno storpio”. Una voce da zittire a ogni crisi di fragilità, anche attraverso la narrazione, la messa in parola che incoraggia proprio Cesare (lui che interviene anche in queste pagine, ma che racconta soprattutto per immagini, fotografando Bianca senza paura né giudizio). Una via possibile, per Bianca, per chi come lei si sente intimamente diverso, per tutti noi.
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