Incontriamo Stefano Pesce, OSS con più di 15 anni di esperienza, prima con persone disabili e poi, dal 2010, presso servizi di riabilitazione psichiatrica: ascoltiamo il suo racconto, percorso dall’amore per le storie e dal desiderio di utilizzarle come strumento espressivo e reciprocamente conoscitivo con utenti di uno storico servizio semiresidenziale del territorio biellese.
Percorsi condivisi e messi in parola
Ho dei trascorsi nell’ambito della scrittura teatrale, ho collaborato con compagnie locali; in una delle mie vite passate, mi sono anche occupato di editing video, sia analogico sia digitale. Questo fa sì che la narrazione per immagini e per azioni faccia parte del mio mondo. E nel contesto in cui lavoro non posso che portare il mio mondo.
Lavoro sulla narrazione con un gruppo di circa 10 utenti con patologie psichiatriche fra loro disomogenee (per esempio, schizofrenia, disturbi di personalità, doppie diagnosi); il partecipante più maturo è una signora di circa 70 anni, il più giovane un uomo poco più che quarantenne. Il gruppo ha proseguito le attività anche in tempo di Covid: abbiamo creato due bolle, una di cui fanno parte le persone che vivono nel Gruppo Appartamento adiacente al centro e l’altra composta da chi invece frequenta il Centro ma vive presso una propria residenza.
La chiave di efficacia consiste nella regolarità e nel percorso: da 3 anni tutti i mercoledì, dalle 10 a mezzogiorno, ci troviamo per costruire storie e nel pomeriggio dedichiamo circa un’ora alla loro rielaborazione e alla lettura ad alta voce.
La funzione della lettura ad alta voce
Tutto è iniziato proprio dalla lettura: ho cominciato a proporre delle storie di Rodari in cui si proponevano tre finali possibili. Mi sono accorto che il gruppo aveva voglia di raccontare e quel desiderio ha preso il sopravvento rispetto al piacere del puro ascolto e della scelta tra epiloghi costruiti dall’autore. Così è nata l’idea di creare storie.
La lettura ad alta voce prosegue, come attività parallela e sinergica: leggere brani di Moby Dick e commentarli, immergersi in storie come “Il colombre” o “La giacca stregata” di Buzzati ha consentito di aprire dibattiti su temi importanti come la sfida, l’ignoto, le paure e la necessità di affrontarle, l’attesa, il rapporto con il denaro, la libertà, gli errori… E c’è anche l’occasione di comprendere come è costruita una (bella) storia, quale struttura ha, l’andamento possibile.
Di solito, leggo io. Ed è molto diverso rispetto a ricorrere a podcast o audiolibri: la lettura ad alta voce in presenza si nutre della relazione fra i partecipanti, non ha nulla di meccanico, permette di “sentire” l’uditorio, di cogliere l’adeguatezza o meno del testo rispetto al momento, di percepire il livello di attenzione, magari di suggerire una pausa, se necessario. È un’esperienza di condivisione preziosa per tutti noi.
Guardare film in controluce
Anche molti film aiutano, in questo senso, e sono esempi che abituano a usare le parole per descrivere immagini e muovere personaggi, ambienti, accadimenti. Il nostro cineforum si tiene di lunedì. Spesso propongo film di animazione che affrontano i vari temi in modo sfumato e che, rappresentando personaggi e situazioni attraverso il disegno, difficilmente propongono immagini disturbanti. Tra i film che hanno suscitato maggiore interesse, ricordo “Il castello nel cielo” e “Si alza il vento” di Miyazaki, “Klaus”, ma anche “Il mago di Oz” (quello originale, degli anni Trenta) e “Jojo Rabbit”, che ci ha portato a confrontarci sul tema della suggestionabilità e dei condizionamenti rispetto ai quali è possibile guadagnare una propria autonomia.
E la voglia di raccontare cresce dopo ogni proiezione. Anche in chi fatica a cogliere e rendere esplicita la consequenzialità fra eventi ed emozioni, per esempio: “durante il narrare” emergono blocchi e ostacoli legati al rapporto che ciascuno ha con la propria condizione di malattia e disagio, ci sono ferite che possono essere toccate dalle storie che si vanno costruendo in gruppo. L’importante è trovare il modo, insieme, di accarezzarle senza riaprirle…
Creatori di storie
Utilizzo diversi strumenti per stimolare il processo di narrazione: dei dadi che presentano, su ogni faccia, disegni di simboli evocativi oppure dei giochi che prevedono la scelta a caso di carte che identificano personaggi, luoghi, situazioni. Rispetto alle regole previste dai giochi, intervengo con alcune variazioni per agevolare gli scambi, favorire un ritmo sostenibile, in cui ci sia spazio per tutti, e per abituare a coordinare meglio le vicende di più personaggi nella stessa storia.
Così si può partire da un cono gelato, da un’ape oppure da una nave da crociera con un vampiro, si riveste il ruolo di dei pagani che possono orientare il destino di alcune vite… I racconti nascono attraverso il ricorso a metafore: alcuni utenti ne generano di molto ricche, attingendo con facilità alle loro esperienze o alle loro fantasie; altri, invece, faticano a spingersi oltre il significato letterale delle parole o delle raffigurazioni grafiche e il lavoro di sollecitazione è più complesso.
Si tratta sempre di essere molto delicati perché comporre storie significa attingere alla propria, confrontarsi con le proprie esperienze, inevitabilmente, e i vissuti dei nostri utenti sono spesso percorsi da cicatrici profonde, da traumi, fasi confuse e faticose. Alcuni utilizzano sempre le stesse immagini e le stesse metafore: ascoltarli mentre “inventano” (cioè creano e trovano in se stessi) ci consente di conoscerli o riconoscerli meglio, di individuare ciò che li fa stare male e ciò che li fa stare bene.
Per alcuni utenti, la narrazione è una via per accostarsi ad azioni della quotidianità che li trovano a volte impreparati: fare le pulizie di casa, cucinare, andare in Posta o in banca possono essere attività faticose, disorientanti, e affrontarle “a parole” aiuta, supporta, agevola la messa in atto.
Alcuni faticano a vedere gli altri, ad accorgersi della presenza di altre persone, ciascuna con le proprie esigenze: i racconti permettono di vedere interagire diversi personaggi, di osservare come si sviluppano i dialoghi, di costruire relazioni nella finzione, che “somigliano” a quelle in cui poi ci si trova a vivere. Questo aspetto è particolarmente importante per chi vive in strutture residenziali in cui ci si deve “assestare” nella convivenza con sconosciuti, in un contesto diverso da quello familiare.
Ci sono utenti che manifestano incapacità a raccontare in modo chiaro le loro esperienze, anche le più semplici: spiegare perché si è perso un pullman, per esempio, ricostruendo catene causali fra piccoli eventi, non è banale. Inventare storie, doverle rendere intellegibili da chi ascolta consente una sorta di “allenamento logico”, richiede di chiarire i vari passaggi, di porre collegamenti fra azioni e avvenimenti. L’uso del linguaggio in contesto narrativo sviluppa elasticità, genera una crescente ricchezza (per esempio per evitare ripetizioni, per cercare la parola più efficace, più “esatta” per esprimere il concetto che si ha in mente).
Narrare è scrivere?
I racconti che il nostro gruppo genera non nascono per essere scritti, ma per essere detti, condivisi mentre si costruiscono. Nessuno di noi ha mai avuto l’intenzione di “tramandarli” in qualche modo, trascrivendoli, diffondendoli. So di molte esperienze analoghe che hanno dato luogo a pubblicazioni, ma non è questo l’obiettivo del nostro gruppo: ci è accaduto di annotare qualche storia, ma per tenerne traccia fra noi, per esercitarci nella scrittura come via per scegliere con più cura le parole.
Niente di più. Io raccolgo queste tracce e mi rendo conto che per renderle fruibili in altri contesti, a distanza di tempo e da altre persone, si dovrebbe intervenire in modo significativo. Ma non è questo ciò che desideriamo e che ritengo importante per il gruppo e i suoi membri: si tratta di un lavoro che “rimane nell’aria”, quella che respiriamo insieme, di un’attività che ha valore a prescindere dal risultato.
Attraverso queste storie, io capisco di più gli utenti, loro si conoscono reciprocamente per aspetti sempre nuovi ed elaborano le loro paure e credenze, i loro condizionamenti. Esprimono le loro speranze.