#intervistandoanteo n°14 “Per la Giornata Mondiale dell’Alzheimer, la nostra Valeria Lentini ci racconta perché e come ha tradotto in un romanzo la sua significativa esperienza“
Pubblicare una storia non solo vera, ma “verissima”
S’intitola La memoria del cuore e il Gruppo Albatros l’ha pubblicato in una collana dedicata agli autori esordienti: è il romanzo che ho voluto scrivere e diffondere per realizzare due obiettivi cui tengo molto. Innanzitutto, desideravo proporre una lettura breve e scorrevole, accessibile a tutti, per offrire uno spunto per parlare della malattia di Alzheimer, conoscerla, trovare appigli per una forma di sollievo, aiuto, confronto per coloro che vivono questa esperienza. E poi volevo dare voce alle persone malate e ai loro famigliari, che spesso non hanno uno spazio pubblico dedicato: il tema è ancora una sorta di tabù, come se la malattia dovesse essere nascosta. Inoltre i malati stessi, ad un certo punto del decorso, perdono la capacità di parlare e quindi rimangono concretamente “senza voce”: desideravo valorizzare quella della protagonista, Clara, narratrice della prima parte del libro, che poi passa il testimone alla figlia, che racconta i successivi sviluppi, fino all’ultima pagina; la voce di Clara, così, continua a esserci, a parlarci.
Ho ricevuto riscontri incoraggianti da lettori che hanno vissuto questa esperienza e mi hanno parlato della commozione che hanno provato e del loro coinvolgimento emotivo in una storia… “verissima” in cui si sono rispecchiati.
Sono partita da spunti concreti e ho poi orientato gradualmente la narrazione verso un finale “romanzato”, a sorpresa, che cerca di dare speranza e senso all’esperienza complessiva di malattia. La protagonista, Clara, è l’insieme di tante persone incontrate nei miei anni di lavoro; si può quindi dire che è realmente esistita, con tanti volti e in tanti luoghi diversi, e questo spero che la renda persona più che personaggio, presenza tridimensionale, come quelle che ho conosciuto e conosco tutti i giorni.
Una malattia complessa, che non riguarda solo il malato
Continuando a usare il mio romanzo come “pretesto” per parlare di Alzheimer, la figura dell’infermiera ha certamente un ruolo chiave nella storia, ma tutte le persone che stanno accanto a Clara costruiscono relazioni di cura significative con lei: dal marito che non vuole neppure sentir parlare di mandarla altrove rispetto alla loro casa, ai figli, molto presenti, fino alla comunità, il paese, che risulta essere una risorsa fondamentale soprattutto all’inizio, quando comincia a perdere parte della memoria.
L’infermiera instaura con Clara una relazione di comprensione e accoglienza profonda. Si tratta di una sorta di “relazione ottimale” e i figli si rendono conto del rapporto privilegiato, ma non intendo suggerire un “modello” né proporre un “manuale”: Clara è fortunata rispetto a chi è solo o è circondato da persone che si confrontano con grande difficoltà e fatica con la malattia, ma la sua può essere considerata “una storia come tante”.
Una storia, d’altra parte, può essere un buon mezzo per avvicinarsi a un tema difficile, doloroso, scomodo; come ha scritto Barbara Alberti, che ha curato la prefazione delle collana “Nuove Voci”, di cui fa parte il mio romanzo, “il libro è il più soave grimaldello per entrare nella realtà”. E la storia di Clara percorre una parabola completa, procede dall’esordio, con i primi segnali di disorientamento e disagio, e segue l’evoluzione naturale della malattia fino all’allettamento, al totale bisogno di assistenza durante la giornata. Elementi di realtà che ho inserendo in queste pagine sono quelli che raccontano la difficoltà dei familiari ad affidare Clara a qualcun altro, anche nel contesto specifico dell’assistenza domiciliare, che è la soluzione scelta per la protagonista.
Non si tratta di una proposta in senso stretto: nel caso di Clara, l’assistenza a casa si dimostra la via migliore, ma non è corretto giudicare “sbagliata” la scelta di inserire il proprio caro malato di Alzheimer in una struttura residenziale oppure optare per la frequenza a un servizio semiresidenziale. Ogni anziano ha il proprio percorso, di vita e anche di malattia, e ogni famiglia è un mondo a sé, con le proprie risorse e le proprie criticità: l’obiettivo è costruire la migliore assistenza possibile per quella specifica persona, riconoscendone l’identità, unica e irripetibile.
Quando incontriamo i nostri anziani presso i Servizi, la maggior parte di loro ha malattia già da anni, perché il caregiver cerca aiuto quando non ce la fa più. Per questo, i nostri assistiti hanno per lo più almeno 75 anni circa. Tuttavia, presso il nostro Centro Diurno, a Portula (BI), abbiamo anche persone con 60-65 anni, in situazione di esordio precoce e di decorso rapido, che spiazza le famiglie e le induce a chiedere un supporto.
Il mio percorso al fianco delle persone anziane
Sono Educatrice Professionale e lavoro in Anteo da circa 20 anni, presso i Servizi dell’Unione Montana Valsesia; dopo alcuni anni dedicati ai minori, mi sono specializzata nella cura e nell’assistenza agli anziani, sia al Centro Diurno Alzheimer di Portula sia, come Direttrice, presso la Casa di Riposo di Coggiola. Per me è molto interessante aver conosciuto la realtà di due tipi di servizi, residenziale e semiresidenziale, che ritengo possano rispondere alle esigenze e alle preferenze, così diverse, delle singole persone anziane: come ho accennato, non esiste la “formula magica” uguale per generare il benessere di tutti gli anziani, così come non esiste il “manuale” per relazionarsi in modo perfetto con tutte le persone con la malattia di Alzheimer. Per questo è importante poter diversificare i servizi e orientare sempre gli Operatori all’ascolto della persona che hanno di fronte: questa è la via che percorre da sempre Anteo.
Sto avendo conferma di questo anche nel nuovo contesto in cui sono impegnata: proprio quello dell’assistenza domiciliare che racconto in La memoria del cuore.
Il progetto “Pagina Bianca”: per un’assistenza domiciliare efficace
Da alcuni mesi svolgo il ruolo di coordinatrice di un progetto innovativo, nato in Valsesia grazie a una generosa donazione di un imprenditore di Pray, Achille Burocco, in memoria della sorella. Si tratta di un’iniziativa di assistenza domiciliare dedicata alle persone affette da malattie neurodegenerative e ai loro famigliari.
Il servizio viene offerto sul territorio da un’équipe multiprofessionale composta da un Infermiere, due Operatori Socio-Sanitari, un Fisioterapista, un Terapista Motorio, un Terapista Occupazionale, due Psicologhe e un Medico, che garantisce la completa assistenza del paziente e la somministrazione degli interventi necessari direttamente a domicilio. Per l’équipe è stato predisposto un percorso formativo particolarmente aggiornato sulle metodologie per assistere persone con la malattia di Alzheimer, basato su esperienze di assoluta eccellenza.
Mi occupo in particolare dei primissimi contatti con le famiglie e dell’organizzazione delle prese in carico: sono la prima persona con cui la famiglia parla, predispongo un tempo di colloquio per comprendere la situazione e i bisogni, poi segnalo il caso al medico, che esegue la prima visita; successivamente, in équipe si progettano gli interventi da proporre.
Anche al Centro Diurno effettuo i primi incontri ed è molto utile questa duplice veste: i due servizi, infatti, sono reciprocamente permeabili, perché le situazioni dei pazienti possono evolvere o comunque suggerire l’utilità di una integrazione fra aiuti al domicilio e frequenza diurna di un luogo in cui vengono proposti attività e stimoli.
Un “consiglio”
Mi sento di esprimere una sorta di consiglio ai familiari che si trovano ad affrontare insieme al loro caro la malattia di Alzheimer: non pensate di “farcela da soli”. A volte, per esempio, ci sono mogli e mariti in pensione che pensano di avere tutto il tempo necessario per la cura del coniuge, ma il problema è che non ce la si fa mentalmente. Il malato di Alzheimer assorbe tutte le energie e da soli non si può gestire la quotidianità nel corso degli anni: è importante parlarne, uscire dalle pareti domestiche, confrontarsi, scoprire che tantissimi vivono questa esperienza.
Che cos’è la “dignità”?
Secondo me, la dignità che dobbiamo affermare e difendere per gli anziani malati di Alzheimer si compone principalmente di due elementi: la conservazione di una sfera privata, fatta di oggetti, abitudini nel vestire, nell’alimentarsi, nel fare ciò che fa parte della propria personalità; il rispetto per la storia di vita e l’esperienza dell’anziano. Il rispetto implica la necessitò di parlare con delicatezza delle abilità perse, la riservatezza nel trattare qualsiasi informazione abbiamo sulla persona, l’attenzione nel dare del “lei”, nell’assecondare anche i discorsi che suonano sconclusionati e che possono aiutarci ad aiutare perché hanno significato, un significato importante per la persona. Non è facile, ma provare a indossare “gli occhiali” della persona malata di Alzheimer è importante perché ci aiuta a preservare la sua dignità.
La questione del Senso
Per i familiari delle persone malate di Alzheimer è essenziale cercare e trovare un senso: molte volte ho assistito alla riscoperta del tutto inattesa di relazioni, alla costruzione di modi di stare insieme che sembravano impossibili. Trovare nella malattia la ragione per portare avanti quella stagione della vita è possibile. Perché si tratta sia di salvaguardare e garantire la dignità per i malati, sia di cogliere le possibilità di arricchimento umano, spirituale per chi resta. La persona che si ammala di Alzheimer non è più quella di prima e questo genera un senso di perdita; non si è mai pronti; eppure la persona malata non svanisce, diventa una persona in parte diversa, con la quale sono possibili modi di comunicare al di là delle parole, per esempio stringendosi le mani, guardandosi, trovando vie per esprimere e percepire presenza e vicinanza. È necessaria la pazienza di cercare e ascoltare. Di stare. Con una persona nuova.
Clara e le persone che le sono accanto riescono, alla fine della storia che racconto, a trovare un senso alla malattia e quindi alla vita; allo stesso modo noi operatori della cura, per sfuggire al rischio del burn out che le patologie croniche e, a maggior ragione, quelle degenerative possono determinare, dobbiamo condurre ogni giorno una ricerca del tutto simile.
Dobbiamo pensare che siamo le persone che caratterizzeranno gli ultimi anni di vita degli anziani che si affidano a noi: quello che condividiamo e che organizziamo dev’essere un tempo bello, pieno, in cui vivano esperienze nuove! Ci penso tutti i giorni, possiamo dare un valore diverso. Anche 10-20 anni, dare significato. Responsabilità e onore. Abbiamo la possibilità di farlo, gli strumenti e le risorse. Possiamo mettere il massimo di noi stessi, la nostra passione. Dobbiamo farlo.
Se ripercorro i miei anni di lavoro con gli anziani, penso alla ricchezza e alla soddisfazione che ne ho tratto. Tutti i giorni, quando entro al Centro Diurno, sento un’energia particolare. Mi piace. Tutte le persone incontrate mi hanno lasciato bei ricordi, anche i familiari più difficili (ci sono, certo!), che spesso hanno riconosciuto con particolare calore il mio impegno.
E ora…
Sto scrivendo un altro romanzo, è lì, sta crescendo nel più classico dei “cassetti”: sarà la storia di quello speciale intreccio di vite che si costruisce all’interno di una residenza per anziani. Al domicilio come in casa di riposo, la Cura può essere una grandissima risorsa per vivere pienamente e con dignità fino all’ultimo dei propri giorni.