Attorno a un tavolo: idee e pensieri
La riunione di équipe de “La Baia” e poi quella congiunta de “Il Faro” e de “Il Molo”, nel pomeriggio, partono dalla verifica della programmazione e delle modalità con le quali è più efficace proporla (i “foglioni” esposti all’ingresso vengono consultati? Serve una soluzione più fantasiosa per porgere l’offerta di attività del Centro, per rappresentare in modo chiaro la convivenza fra percorsi “istituzionali” e percorsi alternativi possibili, finestre generative individuali per chi non prova propensione, stabile o momentanea, per le proposte “di base”?), impatta su interrogativi che la quotidianità ha inaspettatamente (come sempre) presentato e poi si sposta più in profondità: ci si confronta sulla responsabilità, intesa come capacità di “rispondere qualcosa” e capacità di “rispondere di qualcosa”. In particolare in situazioni critiche. Un giovane uomo, per esempio, a tratti sembra sia quasi dimenticato dai suoi familiari: “non sanno chi è, non lo conoscono”, dice un Operatore, affranto, che invece lo conosce eccome. Lui sa bene che cosa gli piace fare e mangiare, dove non gli piace andare, la marca delle sigarette, le abitudini del mattino e quelle del pomeriggio. Lo conosce. Semplicemente.
Effetti collaterali
Dopo il lockdown, al ritorno al Centro, alcuni Utenti dei servizi semiresidenziali hanno manifestato una regressione in alcune abilità: sono i più fragili, quelli che hanno bisogno si una stimolazione continuativa, nell’ambiente abilitante, con il supporto del contatto fisico, non solo visivo e uditivo. L’équipe ha fatto tanto, a distanza, tutto quanto poteva; ma per alcuni bisogna ricominciare a costruire perché qualcosa si è perso; per altri, si deve affrontare la fatica di tornare a ritmi di attività che si sono interrotti forzatamente. Un utente tende ad addormentarsi a ogni pausa, un’altra si distrae più facilmente di prima e ha smarrito parte dell’abitudine all’ordine che aveva consolidato, passo dopo passo, nel corso dei mesi precedenti la serrata. C’è chi come obiettivo delle attività cognitive alle quali partecipa ha scrivere il suo nome e chi invece partecipa al cruciverba di gruppo; c’è una giovane utente che non vede e non sente. Confrontarsi con battute d’arresto o passi indietro può essere frustrante, per l’Operatore che ha vissuto insieme a ciascuno ogni piccola o grande conquista. Trasmette un senso di sconfitta. Ma fa parte della realtà ed è importante leggervi fattori di dinamicità imprevedibili come occasioni per cambiare gli itinerari, modificare gli obiettivi. Ricominciare comunque diversi, entrambi, dalla prima volta in cui si è tracciato quel sentiero nel bosco. Seguire l’onda, insomma, perché spianarla non si può.
Il buio, i gesti e le parole
In Comunità, verso sera, quando la stanchezza sembra vincere e può generare delle crisi di difficile contenimento, nasce l’idea di dedicare del tempo a ciascuno per la cura del corpo, per il benessere: un’attività, così, esce dal calendario programmato per gruppi e si diluisce in momenti per chiudere ogni giornata accanto a ogni persona, a ogni corpo e ogni anima che chiede attenzione e promemoria per ricordare che il luogo in cui abita è importante, è bello, funziona. Per gli Ospiti de La Baia ci sono momenti delicati, come il tramonto: andare a letto, abbandonarsi al sonno dopo una giornata attiva, a volte molto intensa, può richiedere uno sguardo speciale, che si traduca in una camomilla calda o in qualche chiacchiera in confidenza. L’attenzione alla persona non può dimenticare questo tempo. Come la necessità che tutti facciano attività motoria, tutti i giorni, in qualsiasi condizione di restrizioni legate alla pandemia, con qualsiasi situazione meteorologica: il controllo del peso e i benefici che derivano dal movimento del corpo rientrano nella cura della salute complessiva che ciascuno deve imparare a considerare importante.
Sul tavolo arrivano parole importanti, sguardi che compensano le mascherine con un’espressività diretta e diritta, pupille nelle pupille: trapela un’insofferenza più o meno esperta per il modello burocratico che, a partire dalle severe normative di settore, sembra volersi imporre nella gestione di servizi che si nutrono di altro. Un modello che va certo rispettato per le istanze che rappresenta, per la mozione d’ordine che è, essa stessa, una forma di cura. Eppure, non può esserci solo questo. E ricordarlo, nelle parole e nei fatti, sembra una posizione eccentrica e sovversiva, che richiede coraggio, che individua nel rischio un fattore di scoperta e di cambiamento del mondo (sì, del mondo) degno di un elogio. L’incertezza sociale e la paura liquida di cui parlava Bauman richiedono equilibri ed equilibrismi quotidiani modulati fra quanto impone il principio di precauzione e quanto chiede a gran voce il principio di autodeterminazione, universale. Non sono “teorie”, ma “sovrappensieri” che accompagnano i gesti, le parole, le scelte di chi costruisce, giorno per giorno, un progetto di vita per e insieme a persone fragili. Una piccola grande impresa che della carta ha il biancore, pronto al nero e al colore, e anche il fascino.
Tutti in cerchio…
Siamo a “Il Molo”, il CSE che si articola al primo piano della struttura. Il Coordinatore ha pensato di farmi conoscere il Centro attraverso gli sguardi di chi lo frequenta.
Luigi
prende la parola per primo. Ha un’età difficile da indovinare, diciamo non meno di 50. “Io sono qua per un incidente. M’interesso di auto. Sono stato in Ungheria, in Austria, in Canada e in Texas. E nei boyscout. Questa è la mia storia.” Questa è la sua storia, senza tempo, in cui la tridimensionalità sembra aver perso importanza: l’incidente è avvenuto quando Luigi aveva 14 anni. “Ho trovato un sacco di amici, qui. Tra cui Massimo e Paolo, miei grandi, grandissimi amici.”
Anna
È estroversa, Anna, e cerca la scena con il suo sorriso un po’ incerto: “A me piace tantissimo disegnare. E scrivere quaderni di favole con il lupo, il cane e tanti altri animali. Disegnare e dipingere mi tolgono la tensione. Io sono un po’ fifona, ma devo imparare a lasciarmi andare. Se riesco a farlo, dopo sto bene. Ho fatto un viaggio e l’ho raccontato scrivendo. Vorrei leggere le mie storie agli altri, mettermi al centro e fare come se fossi una nonna. O una zia.” Potrebbe nascerne un video: domani inizia un gruppo di lavoro per realizzare un CD. Facciamo una prova. Anna è emozionata (“Sono elettrica”); racconta una storia di re e principesse e taglialegna, nascondigli sotto terra, desideri segreti e danze, dialoghi vivaci, immagini tratteggiate con il viso e qualche parola qua e là.
Mara
Anche Mara scrive: “Io scrivo poesie d’amore. C’è un ragazzo che vive sotto, a “La Baia”, che mi attrae e gli scrivo poesie perché sono innamorata di lui. Cotta. Lo voglio sposare e scrivo di questo. Le parole le trovo sul giornale. Si chiama “Intimità”. Le mie sono poesie sia corte sia lunghe. Dolcissime. D’amore. Mi piacciono queste parole: amore, dolcezza e speranza. Scrivo di sabato e di domenica. Quando una persona cara non c’è, non è presente, mi manca e piango un po’. Anche quando ho il nervoso piango un po’.”
Elisa
Elisa è appena rientrata dopo un periodo in cui è rimasta a casa, per prudenza: “Quando sono tornata ero emozionata. Era il mio sogno, tornare, perché a casa mi sentivo stretta. Qui mi diverto in un altro modo, con i ragazzi. Gli adulti, a casa, non hanno tempo. Il mio passatempo preferito è scrivere i profili psicologici delle persone, in base al comportamento e al corpo. In base al soggetto che ho davanti, insomma. Ci ho provato anche con un po’ di operatori. A scuola ho fatto Psicologia e mi sono appassionata. Ho cercato un tutorial su YouTube e lo uso.”
Mario
Mario lavora in segreteria, partecipando ad alcune attività che descrive così: “Si compilano i fogli delle nostre presenze, sia manualmente sia al computer; ho fatto un periodo, prima di tutto ‘sto casotto, a preparare i fogli per la mensa; poi si fanno gli elenchi del personale utente in cui si modifica chi c’è e chi non c’è alle attività; e compilo le fatture per la Comunità e il Centro Diurno, divise. Faccio anche le fotocopie. C’è anche l’assemblaggio per una ditta esterna. Se vanno bene le cose, mi piace. A me non lo fanno vedere quando vanno male.” Sorridono tutti. “Se le cose vanno male, bisogna fare le correzioni; se uno non fa niente, gli errori non li fa; ma se uno qualcosa fa… Spero vadano bene, le cose che faccio. Se non bene, in modo discreto.”
Amici
Interviene Alessio, quasi con urgenza: “Io ho trovato Michele, giù a “Il Faro”. Amico. L’ho incontrato qua. È importante.”
Il tema dell’amicizia attraversa la stanza come un flusso caldo e rassicurante.
Luigi dice: “Quando sono entrato non conoscevo nessuno, poi man mano ho cominciato… E adesso nessuno mi schioda di qua. Sono contento: è qua che ho trovato i veri amici. Un vero amico è uno che capisce i problemi che hai e ti viene a prendere per andare in giro. Andavo in discoteca, per esempio. Prima non avevo nessuno, ero sempre a casa da solo.”
Pietro ha vissuto a “La Baia” per cinque anni. Poi ha lavorato in cucina, ha fatto un tirocinio. “Ho un sacco di amici qui. Dopo aver finito le scuole, avevo perso quegli amici. Mi sono anche dovuto trasferire con la famiglia e così ne ho persi altri. Li rivedo in estate, alcuni, ma adesso gli amici nuovi sono qui.”
Il rito del ritrovo alle macchinette del caffè fa sorridere tutti, come un gioco semplice che guai mancasse: lì ci si raccontano le confidenze e i segreti, si scherza con poco. In tre, per esempio, si dividono un caffè; è iniziata così, perché uno di loro non pagava mai.
Le paure, gli antidoti
Poi Michela dice: “Paura!”. Così, senza apparente legame con il discorso che si sta sviluppando. “Che cos’è la paura? Quando ti trovi davanti qualcosa di nuovo e non sai come reagire. Avevo un fratello di 17 anni che poi è morto. Non c’è stato più. È stato un periodo forte. Mi vergogno a parlarne, non so perché. A volte sono spaventata, a volte no. Mi dicono di tirare fuori… Io tengo tutto dentro, ma so che è peggio.” Interviene Elena: “Su, devi stare su… Se no sto male anch’io!”
Giuseppe andava a calcio e a karate, prima della pandemia. Sorride. Per lui lo sport è il luogo dell’amicizia per eccellenza. Ma non si sente di parlarne.
Elisa racconta di quando andava in palestra per i suoi problemi di schiena. Racconta anche della scuola professionale che frequentava, poi interrotta. Questa sembra una ferita profonda e ancora aperta. La malinconia negli occhi, mentre parla delle sue paure e della sua ansia. Qui ha conosciuto gli Operatori e il Coordinatore, che “la capiscono”. “Io qua mi trovo bene e vorrei continuare a restare qua fino… a 60 anni. Sono un po’ emozionata, non so se si vede, se sono rossa… Alla mia età non dovrei emozionarmi, sono una signora… Ma se penso alle persone che non ci sono più, mi prende l’ansia. Penso: e se da un momento all’altro muoiono i miei genitori, come faccio?”
“A me piace fare il lavoro per conto terzi, vedere i film sullo spazio, ascoltare le notizie e discutere un po’, sentire l’oroscopo…”, enumera Mario. Mi consiglia un film di Aldo, Giovanni e Giacomo. La quotidianità raccontata per frammenti: “pulire i tavoli, mettere via i piatti e le posate, fare la bigiotteria mettendo insieme le perline di colori diversi, sempre divisi in gruppi, poi facciamo le varie torte mescolando gli ingredienti, con storie dal mondo parliamo delle tradizioni delle varie nazioni… e poi ci colleghiamo a orari definiti con chi in questo periodo sta a casa: parliamo…” Già: le videochiamate, una risorsa.
“Anche se un conto è viverle insieme, le cose, un altro conto è stare a distanza, vedere solo la faccia… non la puoi toccare”; “Ma è stata una bella cosa perché altrimenti io ero perso. Io sapevo che c’erano, ma mi trovavo in difficoltà… Si erano persi i contatti. Invece così si sono riallacciati. È stata una grande cosa. Va bene non sentirsi per un po’ di tempo, come per le vacanze estive, ma per tanto tempo no… Io mi perdo… è stato bello. Il massimo che si poteva fare era questo ed è stato fatto.”
La cura e le abilità
Sul treno del ritorno mi vengono in mente le parole di Eugenio Borgna, nelle ultime pagine del saggio La fragilità che è in noi. Le recupero:
“La comunità di cura è una forma di vita, di vicinanza umana e di solidarietà, alla quale siamo tutti chiamati, non solo medici e psicologi, ma genitori e insegnanti, e nella quale la timidezza e l’insicurezza, l’inquietudine adolescenziale e la debolezza anziana, la gentilezza e la mitezza, possano trovare ragioni di speranza.”
Già… E in tutto questo, che mi sembra uno dei mille ritratti possibili di Casa di Marina, quale rilevanza ha la disabilità? Quale impatto hanno le abilità, le disabilità, le non abilità sul senso (cioè sul significato e sulla direzione) di tutto ciò?
Autore: Roberta Invernizzi