In occasione della Giornata Internazionale della Disabilità il racconto di un mercoledì tra risate e poesia a Casa di Marina.
Per cominciare, un pollo
Un pollo di panno e bottoni al centro di un tavolo lungo e già allestito: questo è il segnale, sta per iniziare la riunione della Comunità. Tutti gli Ospiti e gli Operatori in servizio sono convocati. Inizia così una giornata composta da luci e colori diversi, popolata da volti che non scorderò. Per me, su tutto, sorrisi solo camuffati dalle mascherine, curiosi, a volte schivi, ma sempre e comunque aperti.
Casa di Marina, a Cardano al Campo (VA), è un arcipelago di spazi e tempi per persone con disabilità, articolata attorno a scale a chiocciola e strutture in legno, un po’ spine dorsali che sostengono e strutturano, un po’ scivoli che agevolano e accompagnano: una Comunità Alloggio, “La Baia”, e due Centri Socio Educativi, “Il Faro” e “Il Molo”.
Questa è una dimora intitolata alla memoria di un’Operatrice: un luogo in cui la cura è parte delle sue stesse origini, uno spazio plurale in cui ci sono un approdo sicuro, un punto di riferimento per orientarsi e un sentiero che protegge ma apre spazi di libertà.
Appena varco la soglia (naturalmente ben “bardata”, secondo le disposizioni vigenti anti Covid), gli Ospiti si avvicinano per presentarsi quasi in fila; scherziamo sulla distanza che dobbiamo mantenere, le mascherine, l’impossibilità di stringerci la mano come ci verrebbe spontaneo fare. Due sono fidanzati e c’è orgoglio nel dirlo.
Parole libere
Si apre la riunione. Ada (i nomi sono casuali, un po’ per riservatezza un po’ per la mia lacunosa memoria, ma tanto che importano, qui?) partecipa da lontano: con ogni probabilità è in cima alle scale, protetta dagli sguardi che in questo momento non si sente ancora di sostenere. Marta legge l’ordine del giorno e già si prevede che di “varie ed eventuali” ce ne saranno parecchie.
Alessandra parla della mancanza: le mancano i familiari, che non può vedere. Altri quattro annuiscono e dicono, quasi in coro: “anche a me!”. Le assenze che pesano: ognuno ha le proprie. “E quando potremo andare dal parrucchiere?” “Quando potrò rientrare in famiglia la domenica, come facevo prima?”. Si sente la fatica di stare nei confini, anche quelli (provvisori ma tangibili) costruiti con teli di plastica per delimitare gli spazi dei tre nuclei di vita all’interno di Casa di Marina, come richiesto dalle misure antipandemiche: i contatti vanno ridotti al minimo perché da nutrimento essenziale si sono trasformati all’improvviso in potenziali minacce.
E il compito degli Operatori è addolcire questa realtà, evidenziarne la ragionevolezza, disegnare entro quei limiti forme di gioia e condivisione possibili, per mantenere il nutrimento e tenere ben lontane le minacce.
Emozioni al centro
Si ride tanto, durante la riunione. Poi si diventa seri, in un istante. Ma basta una battuta o un gesto buffo e si torna a sorridere. È così, qui: emozioni dirette, pochi filtri. E il ritmo giusto per esserci davvero: il ritmo lento, sostenibile da tutti, che non lascia indietro nessuno (perché poi è mica una gara, che vince chi arriva prima!).
La trasparenza di una scritta sul muro, nata in un momento di sconforto e mai cancellata: “Non tornerò più a casa”; parole in pennarello nero che stanno lì, senza paura né vani pudori, a testimoniare quell’istante, superato, che a volte riemerge con il volto della nostalgia.
La trasparenza della Coordinatrice quando richiama il gruppo al rispetto delle regole: “Sapete come si chiama questo posto ufficialmente, per le Istituzioni, ve lo ricordate? Comunità per Adulti Disabili. E noi ci rivolgiamo sempre a voi come ad adulti, non come a bambini, e come a persone normali, non disabili. Per questo mi sento di rimproverarvi”. Cala il silenzio. E poi l’autocritica, a fronte di qualche lamentela su situazione in cui si desiderava ricevere più attenzione: “Noi operatori siamo persone. Siamo imperfetti. Commettiamo errori. L’importante è il rispetto reciproco.
Perché stare in questa Comunità dev’essere una palestra per la vita: ci dobbiamo preparare per uscire dalla baia, imparando, per esempio, che spesso dobbiamo aspettare. Aspettare il nostro turno in una coda, aspettare che ci venga dato qualcosa che chiediamo legittimamente, aspettare il momento giusto per chiedere o offrire.”
La richiesta di attenzione riveste quasi sempre carattere di urgenza per chi la pone: è difficile, pressoché impossibile, aspettare una carezza quando se ne sente il bisogno, aspettare un tempo dedicato, esclusivamente per te quando sembra mancare l’aria. Eppure gli Operatori non possono materialmente rispondere a più “emergenze emotive” simultanee. Perché di norma sono due in turno, perché ci sono le attività programmate alle quali il gruppo deve e vuole partecipare e ci sono margini di imprevedibilità che spaziano da un oggetto che si rompe a una fornitura da ricevere.
Come “esserci”
Bisogna in qualche modo “organizzare la presenza”: questo è il tema. Manuela dice: “ieri avevo molto bisogno, volevo che qualcuno mi chiedesse come stavo, che cos’avevo; mentre mi facevo la doccia ho sentito forte il mio dolore e il bisogno di essere aiutata”. Stefania dice: “a volte sento che qualcosa dentro di me si sta scatenando”. La Coordinatrice accoglie, la collega annota in quello che non è un verbale ma un quaderno di lavoro, una traccia dell’esistenza insieme e un territorio per progettare e fare: “a volte la presenza dell’Operatore non sembra calmare, a volte il pianto è ancora più fuori controllo… Che cosa dovrebbe fare l’operatore in queste situazioni?”. “Ascoltare e basta”. È un bisbiglio, poi è tutto un annuire. “A me servono dieci minuti per stare da sola, magari uscire in giardino e urlare”; “io devo poter dire a qualcuno: guarda che sto per scoppiare, dove posso andare?” Germogliano le proposte per nuove procedure che traducano in regole le esperienze, non disperdendole, rendendole patrimonio comune per stare tutti meglio. L’obiettivo degli obiettivi.
E solo così le procedure non sono verticali, piantate da qualcuno come alberi già spogli in un terreno sconosciuto, bensì orizzontali, anzi oblique, alimentate dal pensiero, dal bisogno e dal desiderio di tutte le persone che ne sono toccate. Procedure non burocratiche: un ossimoro solo apparente, in realtà strumenti veri, orientati al Bene, fluidi ma non evanescenti
Trasparenti
Anche dei farmaci si discorre in trasparenza: “Sapete che i farmaci non sono la risposta al problema. Pensiamoci bene quando ci viene in mente che potremmo stare meglio con un ritocco alla terapia: parliamone con calma con il medico, ricordandoci che una medicina più forte può dare un sollievo solo temporaneo.” Molti annuiscono, Luca afferma: “secondo me non sta andando male, adesso, per me va bene continuare così”.
Si parla del rapporto di un figlio che voleva tanto entrare in Comunità, per il progetto di futuro autonomo che desidera, e del padre che si è sentito un po’ abbandonato per questo, forse anche tradito, e che quindi va accompagnato a comprendere la scelta di un ragazzo ormai adulto.
Si parla anche del “volersi bene” all’interno della Comunità: non c’è paura a dirselo, non c’è pudore neanche a dirsi che ad alcuni non si vuole bene come ad altri. Si può vivere insieme nel rispetto anche senza un particolare slancio affettivo. C’è spazio per scoprire e coltivare le affinità.
Moira e la poesia
Ha una presenza che non passa inosservata: è alta, bella, espressiva, lo sguardo a tratti diritto e a tratti sfuggente. Moira ha scritto un libro. O meglio: ha scritto, nell’arco di alcuni mesi, una nutrita serie di poesie che ora sono state raccolte e potranno raggiungere molti lettori. L’idea di non disperdere i frutti di un’ispirazione arrivata all’improvviso, nel cuore dell’estate, a un tavolino bianco, nel giardino della Comunità, è stata degli Operatori di Casa di Marina. Hanno curato la trascrizione e l’impaginazione, hanno elaborato una delicata cornice per spiegare quanto basta di Moira, della sua storia, del significato profondo del suo scrivere.
Io ho avuto l’onore di leggerlo, quel libro. Qualche frammento mi ha colpito in modo particolare: l’immagine di un cassetto “che potrò aprire solo io”, ne “Il colibrì”; la presenza diffusa della rabbia (e del “nervoso”); il cuore che si rallegra, esplode e batte; le frequenti domande, un perenne interrogarsi; “grazie per avermi fatto innamorare di te” (c’è molta gratitudine, in quei versi… anche stupore, esclamazione); il tema onirico; l’emozione suscitata dal colore rosso; “il privilegio di avere le ali” che hanno le farfalle (e le mosche, che io amo); l’applauso alla luna; le poesie che s’intitolano “Il bipolarismo” e “L’immaginazione”, integralmente; la “macchia nera” della solitudine, della mancanza, della nostalgia; le “risate” che abitano il verso appena successivo a quello che parla della “tracheotomia”, nella poesia dedicata alla mamma.
Il libro sta per essere pubblicato. Ve ne daremo volentieri notizia con maggior precisione. Perché in una Comunità accade questo: che le abilità fioriscano e le disabilità rimangano sullo sfondo, come un paesaggio che non fa il protagonista. Perché non lo è.
Autore: Roberta Invernizzi