PICCOLA NOTA DI METODO

Anteo è l’insieme delle persone che ogni giorno lavorano per far funzionare al meglio i servizi rivolti a persone che vivono varie forme di fragilità. In questo spazio, incontriamo storie, esperienze di lavoro e quindi di vita, che alcuni Colleghi generosamente mettono in comune con tutti noi. Questi testi nascono da interviste condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni dall’interno di un ruolo che è sempre ben più di un abito che avvolge un corpo. Non troverete un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce permanenti che ha lasciato ogni incontro di intervista, ogni intreccio di sguardi accaduto in uno spazio e in un tempo definiti.

#intervistandoanteo n°16 “Il gusto di progettare soluzioni per i soggetti fragili nelle parole di Joseph Donis, Responsabile Area Anteo

Un destino che sembrava una casualità

La mia formazione originaria è tecnica: anni fa, ero un geometra specializzato sulle tematiche inerenti la sicurezza. Ero RSPP (Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione) presso una struttura del Vercellese per anziani, per disabili e per pazienti con malattia di Alzheimer. Quando la Direttrice della Struttura si è assentata per maternità, mi è stato proposto di sostituirla temporaneamente sino all’arrivo di un idoneo direttore.

Ho colto immediatamente la sfida. Dai 74 Ospiti iniziali, in un anno il Servizio si è trovato ad accogliere 160 persone. Grazie a questo risultato concreto, è stata riconosciuta la mia capacità e l’incarico si è protratto.

A me piace il contatto diretto con le persone. Per le mie vicende familiari, sono stato abituato fin da bambino a confrontarmi con la fragilità, la malattia mentale, anche la violenza e l’illegalità. Sono realtà che fanno parte del mondo e se si vuole dare un servizio alle persone è necessario ascoltare. Parlare. Provare sempre a costruire soluzioni e risposte.

Fin dalla mia prima esperienza, ho capito che è importante entrare in relazione con i Servizi. Soffermarsi a parlare, ragionare. Imparare. Ricordo quando avevo appena iniziato a svolgere il mio incarico di Direttore di Struttura: parlai con la responsabile della Vigilanza di Vercelli e le chiesi aiuto. Perché nella normativa non trovavo tutto e spesso non capivo ciò che c’era scritto. Ci organizzammo e per alcune settimane, tutti i mercoledì, andai da lei. M’insegnò moltissimo. È successo tante volte: ho chiesto aiuto e me l’hanno dato.

Dopo quella prima esperienza, sono diventato Capo Area per una grande azienda. Seguivo 50 Strutture. Le visitavo, dedicandomi soprattutto a quelle in difficoltà, spostandomi dalla Sicilia alla Toscana, al Piemonte… Mi piace la dinamicità, soffro a stare chiuso in ufficio troppo a lungo. Il mio lavoro era supportare i Direttori, soprattutto nell’occupazione delle Residenze. È il risultato della qualità dei servizi che offri, ma soprattutto delle relazioni che sei in grado e vuoi instaurare e alimentare: con i sindaci, con gli Ospedali e le Aziende Sanitarie, con gli avvocati, gli assistenti sociali. Con le famiglie, soprattutto: chi telefona, chi viene presso le strutture, chi andiamo a visitare a casa. Sono tutte cose semplici, in fondo: ascolto, empatia… Non sono presuntuoso e non ho paura di confrontarmi anche con chi potrebbe (o vorrebbe) mettere in soggezione i propri interlocutori.

Per me è importante dare un aiuto concreto e il più possibile rapido perché chi si rivolge a noi cerca soluzioni e risposte perseguibili, sostenibili e celeri.

Uno sguardo diverso sul mondo del disagio più profondo

Uno dei contesti in cui mi sono recato spesso è il carcere. Incontro detenuti che rimangono lì perché continuano a essere definiti pericolosi socialmente anche dopo aver scontato la loro pena, i casi dei cosiddetti “ergastoli bianchi”; oppure detenuti anziani o malati (di cancro, di mente) che si ritiene debbano essere trasferiti in strutture più idonee alle loro condizioni di salute. Mi sono occupato anche di assassini seriali, persone che hanno compiuto reati molto gravi. Il mio approccio non è mai di giudizio; non spetta a me quel ruolo e lo dico a chi mi sta di fronte; io mi occupo di altro, cioè di trovare un modo per risolvere un problema, nell’ambito della legge, delle regole, di quello che mi chiedono le istituzioni e la persona.

La relazione di fiducia con le Istituzioni Penitenziarie mi portano a effettuare quasi sempre i colloqui direttamente in sezione. Alcuni giorni fa, ho conosciuto lì un uomo che non si lavava da un mese e mezzo. Gli agenti e probabilmente anche gli altri detenuti erano in qualche modo rassegnati a questa condizione. Gli ho chiesto perché puzzasse così, se non ci fosse acqua disponibile. Non sembrava disponibile a parlarne. Gli ho proposto una specie di “premio” per motivarlo a farsi una doccia e a rincontrarmi al termine del mio giro di visite, quello stesso giorno, per dimostrarmi che aveva rispettato l’impegno. Così è stato. Ho provato a entrare in contatto con lui, a fargli capire che m’importava il fatto che fosse pulito. Ha funzionato.

Un volto che ti accompagna

Il tratto che caratterizza il mio lavoro è la necessità che sento di conoscere ogni situazione di cui mi occupo. Voglio conoscere il paziente, la famiglia, i Servizi che li seguono. Vado a incontrare le persone prima di inserirle in Struttura, a casa o in altri contesti, come può essere il reparto di ospedale in cui sono ricoverati. Per loro, significa entrare in contatto con un volto che li segue nel tempo. Sempre quello. Quello che conosce la loro storia, che li ha visti in diversi momenti, che li accompagna verso una situazione che insieme si fa il possibile affinché sia migliore: di sollievo, per esempio in prospettiva del fine vita, di progettualità futura, nel caso di pazienti psichiatrici o con disabilità o svantaggio sociale.

Ricordo la storia di Mario, per esempio. Era un ricco imprenditore che, per una serie di vicende, si è trovato a non avere nulla. Lui e la moglie si sono ritrovati indigenti e abbandonati dal loro unico figlio. Li ho conosciuti dieci anni fa e sono riuscito a inserire la coppia in una RSA adeguata alle loro condizioni. Per alcuni anni, poi, ho lavorato insieme a loro per riavvicinare il figlio. Ora la signora è morta. Mario invece mi chiama ancora, tutte le settimane. Per sapere come sto.

Un futuro di nuove idee e progetti

Laurearmi in Psicologia è stato un bisogno: non mi sentivo a mio agio quando mi chiamavano “dottore”, dando per scontato che possedessi un titolo che invece non avevo (come peraltro chiarivo in ogni occasione). Ho concluso il mio triennio senza troppa fatica, approfondendo contenuti che sentivo vicini, superando le varie difficoltà insieme ai docenti e ai compagni di studio. Una bella esperienza.

Ora, da circa un anno, sono in Anteo e porto con me un modo di lavorare che credo possa essere fecondo. E il desiderio, per i prossimi 15-17 anni circa che mi rimangono da lavorare, è quello di occuparmi di progetti speciali, che rispondano a esigenze speciali.

I miei due figli più grandi li ho abituati a venire, fin da bambini, nelle strutture, insieme a me, fra gli anziani e i disabili. Volevo che imparassero a vedere che il mondo è a colori. Che capissero che nessuno deve mai essere umiliato per una propria caratteristica. E che per tutti ci devono essere opportunità per stare bene.