Macelleria messicana e l’uomo maligno

Le violenze subite dai detenuti nel carcere di Santa Maria Capua Vetere impongono una riflessione che superi la mera isterica indignazione e ponga il tema della violenza sistemica nelle nostre carceri in una prospettiva di più ampio respiro e di dibattito civile. Violenza sistemica perché Santa Maria Capua Vetere segue analoga violenza avvenuta nel 2019 alle Vallette e alle tante altre aggressioni fisiche che le famigerate squadrette, interne ad ogni carcere, perpetrano ai danni dei detenuti, elemento da non sottovalutare, tra i più fragili.

Ci è semplice riprendere in mano Freud nei suoi scritti in cui teorizza che l’uomo è universamente criminale, “un maligno congenito” lo definisce, che gli psicanalisti Staube ed Alexander perfezionano individuando in varie sottocategorie l’esito finale tra un continuo scontro tra conscio ed inconscio. Freud definisce la coscienza dell’uomo, come “progettazione di una reazione in risposta al male ragione per la quale, in ognuno di noi, alberga il delinquente ma anche il giudice interiore”.

Queste poche righe per chiarire che se le violenze perpetrate da agenti in divisa fossero passate al vaglio degli studiosi sopracitati, concluderemmo che il contesto carcere quale situazione del tutto anomala rispetto al vivere quotidiano ha fatto prevalere l’Io che alberga nel maligno congenito rispetto all’Es che, risvegliando la coscienza, inibisce la sua emersione.

Ma queste sono teorie degli anni 30’ e, seppure affascinanti e forse fondate anche su assunti esperienziali, spiegano l’atto deviante del singolo imprevisto ed occasionale ma non un sistematico, premeditato agito criminale, a maggiore ragione quando questo è collettivo.

Contesti criminogeni

Ed allora, più che la criminologia, ci soccorre la psicologia per spiegare quanto il contesto carcere determini, nei detenuti e negli stessi operatori penitenziari, un modus operandi che travalica lo stato di diritto e si immerge in relazioni di forza che nulla hanno a che vedere con i principi costituzionali che regolano l’espiazione di una pena.

Numerosi studi hanno simulato, in determinati contesti, la totale immedesimazione in ruoli apparentemente alieni alla struttura di personalità di chi vi ha partecipato. Il più famoso, e criticato, è l’esperimento di Stanford che partiva dalla premessa per cui gli individui sono definiti dal gruppo a cui appartengono. L’esperimento prevedeva una ripartizione degli studenti partecipanti in due gruppi: prigionieri e carcerieri, registrando, nel tempo, l’imbarbarimento delle relazioni che posero fine all’esperimento anzi tempo. Altre esperienze su questo primo studio vennero, in seguito, riformulate.

Quale punizione?

Basterebbero questi studi per indurci a riflettere sul contesto carcere e su quanto tale contesto influisca sugli agiti di chi vi abita. Un contesto fallimentare che, dalla parte del detenuto si manifesta con un tasso recidivante altissimo, e dalla parte degli agenti con il ricorso alla violenza quale codice di comunicazione dominante.

Nulla di nuovo, quindi, ma il perpetuarsi di una inerzia da parte di chi avrebbe il dovere di intervenire (in primis il Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) che, si teme, neppure i fatti gravissimi di Santa Maria Capua Vetere riuscirà a smuovere. Assisteremo ancora a episodi di violenza preferendo nascondere la testa nella sabbia piuttosto che riformare la giustizia punitiva, relegando il carcere a effettiva e concreta extrema ratio e anteponendogli ben altre forme di punibilità.

 

di Achille Saletti