PICCOLA NOTA DI METODO

Anteo è l’insieme delle persone che ogni giorno lavorano per far funzionare al meglio i servizi rivolti a persone che vivono varie forme di fragilità. In questo spazio, incontriamo storie, esperienze di lavoro e quindi di vita, che alcuni Colleghi generosamente mettono in comune con tutti noi. Questi testi nascono da interviste condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni dall’interno di un ruolo che è sempre ben più di un abito che avvolge un corpo. Non troverete un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce permanenti che ha lasciato ogni incontro di intervista, ogni intreccio di sguardi accaduto in uno spazio e in un tempo definiti.

#intervistandoanteo n°6 “La testimonianza di Luigina, Operatrice presso la RSA Mezzana Mortigliengo (BI)”

Un’attitudine fiorita nella maturità

Sono diventata OSS a 48 anni. Da ragazza avevo iniziato a studiare Ragioneria, ma arrivata al terzo anno ho perso la motivazione: avevo conosciuto quello che sarebbe diventato mio marito, ero molto innamorata e desideravo costruire la mia vita con lui. Così ho commesso l’errore di abbandonare gli studi. Quello era un buon periodo: il lavoro non dovevi cercarlo, era lui che bussava alla tua porta. Così, nella stessa settimana, di martedì lasciavo la scuola, di giovedì facevo il colloquio di selezione e di venerdì iniziavo i miei turni nella fabbrica in cui avrei lavorato per 29 anni.

Poi, un giorno ho capito che non era il mio mondo: nonostante le amicizie fraterne che si sono sviluppate in quel contesto e che ancora adesso coltiviamo, sentivo che non faceva più per me. Avevo paura ma dovevo fare qualcosa. Ero consapevole di non possedere competenze professionali vere e proprie, saperi da portare con me, quindi non era facile rimettersi in gioco. “Sono troppo vecchia”, pensavo. L’idea del corso per Operatori Socio Sanitari (OSS) è stata di mia figlia, che stava per diventare Infermiera e conosceva il mondo sanitario: credo abbia colto in me attitudini che facevano parte del mio modo di essere profondo ma che avevo sempre applicato fuori dal contesto lavorativo. Ho seguito il suo consiglio, ho studiato molto, mi sono appassionata… ed è andato tutto bene.

Quasi una famiglia

Da quando sono OSS, ho sempre lavorato in Anteo, per un breve periodo in un servizio psichiatrico territoriale, poi nella residenza per anziani di Mezzana Mortigliengo. Questa per me è quasi una famiglia: ricordo con tenerezza gli inizi in casa di riposo, quando imparavo i nomi, le preferenze ai pasti…

Quando lavoro, mi comporto con naturalezza: mi piace molto cantare, per esempio mentre apparecchio i tavoli per pranzo o servo la merenda, oppure quando affianco l’Animatrice della Struttura, in particolare quelle canzoni di una volta che so che gli Ospiti conoscono. E quando si balla, si balla tutti, anche con le carrozzine! A inizio il turno, chiacchieriamo della giornata precedente, con la semplicità che ho quando parlo con i miei vicini di casa. Spesso parlo in dialetto: sono cresciuta in un piccolo paese in cui era abitudine diffusa e mio padre usava raramente l’italiano; condividere la lingua più comune fra gli anziani crea un legame istantaneo, aiuta la relazione; e poi ho capito che molte battute fanno più ridere in piemontese, “funzionano” meglio!

Mi muovo in punta di piedi. Anche materialmente: quando entro nelle camere, chiedo permesso, auguro il buongiorno… Sempre. Con i nostri Ospiti è estremamente importante essere gentili: in un nucleo psicogeriatrico, gli anziani hanno delle esigenze particolari, possono verificarsi episodi di aggressività ed è essenziale saper usare la parola e la gestualità (per esempio quando ci si confronta anche con problemi di sordità) per ricondurre le situazioni all’equilibrio. Ricordo un episodio che riguarda un signore che è mancato qualche anno fa: un giorno era molto agitato e sembrava difficile far sì che si rilassasse; allora, ho provato a dargli la bambola che usiamo per la doll therapy. E lui mi ha stupita: ha trascorso tutto il pomeriggio a coccolarla e vezzeggiarla, come se fosse una nipotina, con un atteggiamento quasi materno, lontano dalla concezione che la sua generazione tradizionalmente ha della tenerezza e dell’accudimento dei bambini, dimensioni spesso connotate in senso esclusivamente femminile.

L’intimità che si costruisce

Mi piace far sentire bene gli Ospiti, saperli puliti, in ordine, profumati. La cura dell’igiene personale con il tempo e con il consolidamento della relazione diventa qualcosa di naturale. Devi fare tutto bene e con delicatezza. Con le Ospiti è più semplice; con gli uomini all’inizio c’è qualche imbarazzo in più, anche perché un tempo la nudità non era mai esibita e anche per questo il senso del pudore è molto forte fra gli anziani. Così, soprattutto all’inizio, chiedo sempre “Posso fare…?”, “posso essere di aiuto…?”. Mi sentono presente, educata: questo è importante.

Non si tratta solo di pratiche, di tecniche: servono tante tessere per formare il puzzle della relazione serena, gentile ed empatica che fa stare bene l’Ospite.

La vicinanza come “chiave” della relazione

Per fare questo lavoro serve tutto: la concentrazione, la manualità… Ma soprattutto il cuore: se non vuoi metterci il cuore, non fare l’OSS. Questo è il mio pensiero. Non si tratta di provare pietà per gli Ospiti, io non provo questo sentimento: provo empatia, che è una parola grossa, lo so! Sono persone che arrivano da storie di vita importanti perché uniche: per confrontarti con questo “materiale” non basta la tecnica. Ci si riconosce come persone. Per questo ci si capisce.

Cerco di essere vicina a loro, di stare davvero con loro. Questo non vuol dire non essere professionale, naturalmente, ma vuol dire non prendere le distanze dal loro mondo, non porsi lontani, su di un altro piano. Credo che questa modalità risponda a un loro bisogno di calore cui penso sia giusto rispondere “sì, ci sono”.

Anche per questo mi sento fedele al lavoro che faccio: lo svolgo con onestà. E quando si avvicina la morte sono in difficoltà. Non scappo, anzi: spesso mi ha rasserenato poter essere presente negli ultimi istanti di vita degli Ospiti, poter stringere la loro mano. Piuttosto, devo gestire una specie di imbarazzo con i familiari: ho paura di ferirli, di non dire le parole giuste. Ma ho capito che dopo aver espresso il mio profondo dispiacere è giusto che mi fermi: non c’è altro da aggiungere. Questa è la vicinanza che posso offrire loro in quei frangenti.

Una professione complessa

Consiglio questo lavoro a chi sente di avere la maturità necessaria. È un lavoro impegnativo , non solo fisicamente e mentalmente: ci vuole cuore. A 20 anni forse fatichi a vedere la sofferenza dell’altro, tendi a negarla. Ma dipende dalla “cultura della cura” che respiri nella tua famiglia, dalle esperienze di malattia e di accudimento che puoi vivere anche da ragazzo: mia figlia, per esempio, ha partecipato al percorso del nonno, affetto da demenza precoce, che ci ha coinvolto.

Ora ho quasi 60 anni e il pensiero di andare in pensione mi rattrista molto: si chiuderà una parte importante della mia vita, la seconda, professionalmente, quella che mi ha fatto tanto crescere come persona. E avrei ancora tanto da imparare, come sempre: è tutto in divenire. Non sarà facile smettere…

 

di Roberta Invernizzi