Diario di un senza fissa dimora, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2011.
L’etnologo dei “non luoghi” dà voce a un testimone dello sradicamento contemporaneo.

Una nuova vita

Nel 1992, Marc Augè aveva inventato il concetto di “non luogo”: con questa espressione ha definito gli spazi in cui le persone transitano per consumare, senza costruire relazioni, senza radicarsi, senza abitare, senza esprimere la propria identità. Aeroporti, autogrill, centri commerciali sono i tipici esempi, pieni di oggetti in vendita e di esseri umani anonimi. Con Diario di un senza fissa dimora, Augè torna sul tema dell’abitare e dell’identità, inaugurando un genere narrativo, l’etnofiction: inventa un personaggio realistico e gli fa descrivere una realtà sociale “dall’interno”, dal suo punto di osservazione. Precisamente, dal marciapiede.
Non conosciamo il suo nome, ma la sua voce d’inchiostro ci racconta la storia: siamo a Parigi, lavorava come ispettore del fisco, ora è in pensione, reduce da un secondo divorzio e sulla soglia di una rivoluzione obbligata della sua vita. Sì, perché i conti ora non tornano più: potrà tenere la sua Mercedes ma non il suo appartamento; potrà trovare un parcheggio nel suo quartiere e costruirsi una finta normalità, ma dovrà schivare il giudizio altrui; potrà realizzare l’istinto di fuga che sente da tempo, ma nel recinto di nuove limitazioni.

Fughe possibili, fra perdite e scoperte

Così, una casa si svuota per diventare di altri. Un’auto diventa casa: il sedile posteriore è il letto (un po’ duro), il cofano è l’armadio (un po’ angusto). TV e telefono spariscono. Il protagonista descrive una quotidianità in cui l’incertezza è la minaccia più grande: il bisogno di abitudini trafigge, perché la libertà senza appigli né ritmi somiglia al vuoto. Il pudore e gli imbarazzi, le difficoltà pratiche (per esempio quelle legate all’igiene), non mancano. Ci sono anche il senso di fallimento e la paura del futuro. Il panico che attacca all’improvviso, l’umore che si fa fragile. Sono le routine che gli servono davvero per provare a sentire la sua vita “normale”. E così rimane nel suo quartiere, frequenta con regolarità un bar che già conosceva, compra nei negozi di sempre; esplora la città con gusto, quasi gioca a fare il nomade, ma alla fine torna sempre nello stesso luogo. Perché i luoghi sono rifugi indispensabili. E non lo sono solo i luoghi.

L’altro: così simile, così diverso

In un breve scritto sulla gratuità, Augè ha scritto: “Per affermarsi, l’essere umano ha bisogno dell’altro, non foss’altro che sotto forma di un Super Io, avatari di un padre scomparso, di un ricordo represso ma costrittivo, O sotto le spoglie di un testimone.” (Sulla gratuità. Per il gusto di farlo!, Mimesis Edizioni, Milano-Udine, 2018) Anche il nostro uomo vive questo bisogno. E cerca contatti, pur sorvegliandone la profondità: non desidera legami, non vuole abbandonarsi. Senza più ruoli, si sente “nessuno”: questo lo disorienta e lo eccita nello stesso tempo. Il protagonista della storia ci descrive l’arcipelago di interlocutori che costruisce: mantiene amicizie del passato, che gli ricordano chi è, e apre nuovi dialoghi, in cui può inventarsi come vuole.
Il rapporto con un senza tetto ben diverso da lui è lo spunto più interessante di tutta la storia: il rispecchiamento imperfetto che si crea, infatti, fa riflettere; la relazione si sviluppa fra non detti anche cruciali.
Arriverà sulla scena anche una donna, ma di questo non vi diciamo: scoprirete il senso di questo snodo soprattutto nelle pagine finali.

Forme plurali di povertà

Certo, il personaggio di Augè ci appare, alla fine, quasi un privilegiato, se scorriamo qualche dato e qualche analisi sulle nuove povertà. La storia raccontata in questo breve, lento ma sagace libro intende darci una rappresentare di una eventualità nella Francia del 2011. Siamo nel 2020, in un’Europa (un pianeta) affaticata da varie stagioni di crisi e ora scossa da una pandemia spiazzante. Le povertà oggi hanno molti volti e corrodono tutti gli ambiti della vita. Lavoro, casa, affetti e relazioni, strumenti e percorsi di apprendimento, accesso ai servizi per la salute, garanzie di sicurezza e tutela: quando mancano alcuni di questi elementi o addirittura tutti, si affacciano condizioni povertà spesso drammatiche. L’emergenza sanitaria Corona Virus ha surgelato l’economia e scompaginato equilibri già precari; nel nostro Paese, la Caritas segnala che il numero di persone costrette a rivolgersi ai Centri di ascolto e ai servizi delle Caritas diocesane è aumentato in media del 114% rispetto al periodo precedente l’emergenza. Forse ci troveremo sempre più a guardarci negli occhi, rivolgendoci l’un l’altro una domanda semplice e antica: “di che cosa hai bisogno?”. Dovremo essere pronti a risposte sorprendentemente dolorose. E a tessere insieme futuri sostenibili.

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