#storiedimpatto n. 2: Antonella Gatto ci racconta il suo percorso a favore dei fragili, fra inserimenti lavorativi di persone con svantaggio e direzione di Rsa.
Le cooperative di tipo B: contro pregiudizi e diffidenze. Alla fine degli anni ’80, l’utopia di persone con svantaggio, in particolare con patologie psichiatriche, reinserite nel mondo del lavoro si trasforma in realtà. La chiave di questo successo? Interlocutori illuminati e coerenza: dimostrare con i fatti, nel tempo, la non pericolosità di persone fragili, la loro motivazione e capacità produttiva, la possibilità reale di una società più inclusiva.
Le cooperative di tipo B: contro pregiudizi e diffidenze
Il mio impegno professionale nel sociale è iniziato nel 1988, stavo lavorando come impiegata e frequentavo l’università ma non mi sentivo del tutto appagata: mancava qualcosa. Quell’anno ho conosciuto il gruppo di persone che aveva creato una cooperativa di produzione lavoro, la “Cooperativa La Betulla”, che la legge 381 del 1991 avrebbe poi denominato “cooperativa sociale di tipo B”, e mi sono fatta coinvolgere in quel mondo. Quella cooperativa rappresentava una sorta di cantiere innovativo e aveva l’ambizione di realizzare un progetto dai più definito utopistico: inserire nel mondo del lavoro persone considerate dalla stessa legge “svantaggiate” (art. 4 legge 381/91).
La cooperativa collaborava con i servizi ASL – il Centro di Salute Mentale di Cossato e il Ser.T. di Biella e Cossato – con l’obiettivo di realizzare inserimenti lavorativi delle persone che volontariamente, con il supporto adeguato, decidevano di uscire dal circuito meramente assistenziale per entrare nel mondo del lavoro.
Per 15 anni ho svolto varie mansioni in quel contesto, come responsabile di settore, responsabile amministrativo e poi come presidente. Negli anni successivi, nell’ambito della stessa “Betulla”, è stata costituita una cooperativa sociale di tipo A con la quale ho collaborato, svolgendovi mansioni di responsabilità.
Di quel periodo ricordo l’intensa attività di tessitura di reti e collaborazioni alla quale ci dedicavamo. Era un aspetto fondamentale: la diffidenza e la paura nei confronti del diverso ha sempre abitato molte persone, allora come oggi, e affinché un vero reinserimento sociale fosse possibile era necessario scompaginare e demolire false credenze.
Molti anni dopo, trovandomi a dialogare con un familiare di un ospite della casa di riposo in cui lavoravo, mi sarebbe capitato di sentire l’esplicita verbalizzazione di queste paure: “non verranno mica quei brutti ceffi a guardare i nostri anziani???”. I “brutti ceffi” erano persone in carico ai servizi di salute mentale, che in quella fase post-manicomiale rappresentavano per molti figure minacciose, aggressive, fuori controllo, mentre cominciavano a essere efficacemente impegnate in attività lavorative come le pulizie, la manutenzione delle aree verdi e altri servizi di supporto.
Abbiamo impegnato molte energie per sensibilizzare le amministrazioni locali e la cittadinanza. Ho dei ricordi vividi di quella fase e di quel lavoro. Ricordo interlocutori che si sono mostrati particolarmente aperti e che hanno sposato le nostre idee. Abbiamo “con-vinto” quando c’è stata corrispondenza tra le parole e i fatti. Farsi conoscere, illustrare idee e valori e spiegare i progetti che si hanno in animo di realizzare sono passaggi importanti, ma più di tutto contano i fatti: abbiamo portato queste persone nei luoghi di lavoro e abbiamo dimostrato che non generavano problemi ma, al contrario, erano risorse vere. Così, abbiamo cominciato a coinvolgere altre realtà sensibili per creare ulteriori opportunità, mostrando anche il vantaggio economico generale che queste operazioni erano in grado di generare: la persona con svantaggio non era più solo un costo, per le sue esigenze in termini di assistenza e cura, ma diventava, attraverso il lavoro, un soggetto in grado di guadagnare denaro, pagare le tasse, effettuare acquisti sul territorio e consumare. La differenza l’abbiamo fatta attraverso la coerenza e la continuità. E queste persone sono state accettate in tutti i contesti in cui si sono inserite. Sono stati necessari molto coraggio e una buona dose di “incoscienza” per vivere questa esperienza!
Ho condiviso il cammino della cooperazione sociale nel Biellese con molte persone, tra queste Luca Tempia e Mariarosa Malavolta [fondatori e attualmente Presidente e Vicepresidente di Anteo Impresa Sociale; n.d.r.]
Come dirigere una residenza sanitaria per anziani: questione di scelte
Sono approdata al settore dei servizi per gli anziani nel 2000, quando un Comune del Biellese, con il quale “La Betulla” aveva costruito una positiva collaborazione, si è trovato ad affrontare una perdita finanziaria molto pesante derivante dalla gestione della casa di riposo. L’amministrazione comunale ha optato per una gestione mista pubblico-privato e io ho assunto il ruolo di direttrice del Servizio. Accettai con riserva, impegnandomi a dare il mio contributo sul piano amministrativo per un anno. Trascorso l’anno e riallineati i conti, con fatica ma soprattutto con rigore, sono rimasta. Eravamo una buona squadra, in cui io mi sono occupata di realizzare un controllo di gestione che tenesse conto non solo dei numeri ma anche del funzionamento del Servizio, della sua qualità, con una verifica diretta, concreta, sul campo delle forniture, delle attività, del personale.
Il settore anziani è stato per me una sfida. Per acquisire competenze e spunti, anche in considerazione della particolarità della natura giuridica della società, ho visitato realtà in altre regioni, Friuli e Veneto in particolare. Grazie alla collaborazione di colleghi che mi hanno consigliato dove imparare il mestiere, ho conosciuto persone generose con le quali ho instaurato preziose collaborazioni e ho visitato le loro strutture.
Mi sono messa in gioco entrando in un universo popolato da professionisti di alto livello ed è stato un enorme privilegio condividere un percorso lavorativo con loro.
Nel frattempo sono nati i coordinamenti delle case di riposo biellesi, si è innescato un movimento di scambi e collaborazioni più squisitamente territoriale per affrontare le nuove sfide. In questo contesto ho approfondito relazioni con colleghi con con i quali abbiamo collaborato per far fronte alle nuove delibere regionali in materia di RSA. In questo periodo ho approfondito la conoscenza di Celestino Zulato [Responsabile Area Anziani di Anteo Impresa Sociale, deceduto nell’agosto 2022; n.d.r.], che avevo già conosciuto quando lavoravamo in cooperative sociali locali – lui alla “Domus Laetitiae” ed io alla “Betulla” – e prima che entrambi cominciassimo la nostra esperienza in Anteo.
Sono entrata nel mondo Anteo nel 2014, quando la cooperativa si è aggiudicata l’appalto della Casa di Riposo di cui ero responsabile grazie ad un ambizioso progetto per la gestione del Servizio e per la ristrutturazione della struttura.
Un vero lavoro di squadra
Nel mio percorso di direttrice in casa di riposo ho sempre avuto il supporto di una équipe molto competente, accogliente e disponibile. È accaduto che mi trovassi in difficoltà, ma non ho mai avuto paura di non farcela perché non ero sola: facevo parte di una squadra forte e motivata. La paura di sbagliare, invece, l’ho provata spesso, ma è preziosa perché ti aiuta a ponderare con cura le tue scelte.
Rispetto al lavoro per il reinserimento delle persone con svantaggio, questo ruolo è più strutturato, lascia meno spazio alla sperimentazione e alla intraprendenza. Le responsabilità, previste in entrambi i contesti, non mi hanno mai spaventata: sicuramente mi hanno messa a dura prova, ma non ho mai avuto paura di affrontare problemi ed emergenze.
Il senso più profondo del ruolo del Direttore di RSA è costruire relazioni: fin dalle fasi che precedono l’inserimento, viene preso in carico l’Ospite, non solo le sue abilità e disabilità, ma anche la sua storia e la sua famiglia. Devi chiederti, ogni giorno: voglio occuparmi solo della tegola della Struttura, delle attrezzature della cucina, del carrello farmaci oppure anche delle relazioni? È molto importante che la RSA sia luogo di costruzione di relazioni significative. Per quanto riguarda l’équipe, sono stata fortunata: anche con il personale si costruiscono e si alimentano ogni giorno relazioni e si stimola il gruppo a orientarsi all’incremento continuo della qualità. La maggior parte delle persone con cui ho lavorato ha sempre risposto positivamente alle mie richieste di “valore aggiunto” al proprio impegno professionale; alcune non hanno capito o hanno frainteso o non erano disponibili, ma non mi hanno mai fatto perdere di vista l’obiettivo di mantenere alta la motivazione di tutti e di ciascuno. È stata una sfida continua.
Una abilità che mi viene riconosciuta è quella di valorizzare le persone, dando la fiducia ed il supporto necessari affinché possano garantire il buon funzionamento e miglioramento dell’organizzazione, per metterli nelle condizioni di dare il meglio responsabilmente. Tutte le figure professionali che lavorano all’interno delle strutture sono indispensabili e si percepisce facilmente se ognuna di loro guarda all’ospite nel suo insieme, se conosce la persona che abita quell’ospite, se ha cura dei rapporti con la famiglia, con costanza e con capacità di ascolto. Per gli infermieri, per esempio, la gestione della salute dell’ospite è un compito globale, che include la prevenzione, la cura, la programmazione e l’effettuazione di una serie di interventi in caso di malattia. La somministrazione delle terapie è solo una piccola parte del lavoro. Il medico si fida di quello che dice l’infermiere, che quindi ha una grande responsabilità. La motivazione di questi professionisti non è solo di tipo economico, ma attiene ancora una volta alla relazione. Ho sempre sentito come mia responsabilità rafforzare e consolidare la motivazione delle persone mediante la valorizzazione nelle relazioni, attività che non può essere svolta nel normale orario di lavoro.
Ora che sono appena andata in pensione, mi rendo conto di avere bellissimi ricordi della mia vita professionale. E più di tutto sono le persone a mancarmi.
L’esperienza della pandemia e i suoi effetti
Durante la pandemia, ho visto manifestazioni di dedizione anche commoventi, fra Operatori e ospiti e anche fra Operatori stessi.
Nella RSA che dirigevo, il Covid ha fatto il suo ingresso solo nel 2021. Il 2020, senza Covid, ci aveva resi molto più squadra, più forti, più fiduciosi gli uni negli altri. Ogni tanto, senza periodicità prestabilite, quando ne sentivo il desiderio, scrivevo due righe di comunicazione agli Operatori per ringraziarli. Esponevo questi messaggi nella bacheca della struttura. Il significato era: “fino a qui ce l’abbiamo fatta, andiamo avanti così”. Quando anche per noi, come in tantissime altre realtà, è arrivato il Covid, è stato uno shock, nonostante fossimo preparati. Abbiamo avuto tanta paura, per gli ospiti, per i familiari e per i colleghi. Tutte le regole e le procedure che avevamo già appreso ora erano da applicare in situazioni interne concrete. È stata dura.
Le riunioni settimanali erano le sole occasioni di socializzazione, in tempo di serrate: c’erano le procedure da spiegare, ma anche il valore di un’organizzazione da condividere, un’organizzazione che doveva tutelare ospiti, Operatori e famiglie finito il turno di lavoro. C’erano tensioni, dubbi, sfoghi da raccogliere. Filtravo e semplificavo il più possibile le istruzioni da applicare, affinché gli Operatori non si sentissero “schiacciati” da quelli che in realtà erano davvero strumenti preziosi. Ci confortava sapere che Anteo aveva un pensiero e delle strategie per gestire la situazione al nostro fianco. E bisognava andare avanti di giorno in giorno, informandoci e formandoci in maniera permanente. Ricordo ancora molto nitidamente quelle settimane così dure.
È stato un periodo molto intenso, faticoso e doloroso. Capitava a fine giornata di sentire Celestino [Zulato; n.d.r.]. Mi dava sempre la forza che mi serviva per andare avanti. Gli riconosco una generosa umanità ed una grande dignità, due doti che, quando si è coinvolti a livello profondo, ti consentono di trasmettere agli altri prospettive diverse, di aprire spazi di confronto e di sfogo. Ha mostrato una resistenza nello stare accanto ai colleghi che gli ha consentito di rivelare sempre spazi di possibilità ulteriori, anche nei momenti più critici. Gli sono grata per la sua capacità di restare e far tornare anche gli altri sul piano di realtà, di credere sempre nel nostro ruolo, nel senso e nel valore che siamo in grado di esprimere e generare.
Proprio da un piano di realtà e in base alla mia esperienza da poco conclusa esprimo il mio giudizio: il lavoro del direttore di struttura è impegnativo anche se si hanno collaboratori validi; è necessario mettere in campo e sviluppare competenze di gestione dello stress e delle complessità quotidiane.
RSA e territorio: un rapporto sinergico e molto stretto
La RSA è una grande risorsa per il territorio in cui vive. Gli anziani sono cittadini e rimangono tali anche in RSA, con i loro diritti. Ci ho sempre creduto. “Diritto di cittadinanza” è decidere della propria vita: tutti, quindi anche gli anziani in RSA, devono poter scegliere quale tipo di vita condurre, quotidianamente. È essenziale porsi in ascolto delle riflessioni e delle richieste degli Ospiti, delle loro proposte e preferenze, andare loro incontro, stimolare la loro ricerca di benessere e quando necessario educarli alle relazioni con l’altro, sia Ospiti sia Operatori. Poi, è certamente necessario anche mediare tra le loro esigenze e quelle dell’organizzazione e della vita in comunità, tenendo fermo l’obiettivo prioritario del benessere massimo della persona. L’anziano vive di relazioni: bisogna favorire spazi e tempi per le relazioni interne alla struttura, per il dialogo con eventuali amici, per le visite con i familiari, ecc. Dobbiamo agire a favore della qualità del tempo di vita che gli anziani trascorrono in struttura, non focalizzare l’attenzione solo sull’assistenza, e formare il personale in questa direzione.
Tutti noi, anche alla luce dell’esperienza del Covid che ha cambiato le nostre vite, abbiamo il compito di tornare a far circolare la speranza, nelle RSA come nelle comunità in generale: servono più relazioni autentiche, serve aprirsi all’altro. Nessuno può salvarsi da solo: bisogna coltivare la speranza di salvezza universale per perseguire la felicità individuale, che è inscindibile da quella collettiva.
di Roberta Invernizzi