PICCOLA NOTA DI METODO

Generare un significativo e percepibile impatto sulla qualità della vita sia delle persone destinatarie degli interventi che pone in atto sia delle comunità alle quali esse appartengono, sul breve, medio e lungo termine: questo è l’obiettivo di Anteo. L’identificazione di questo scopo come prioritario orienta l’intenzionalità di tutte le nostre progettualità e iniziative in maniera attiva, consapevole, sistematica, continuativa e coerente.

La sfida che Anteo affronta consiste pertanto nel porsi come agente di cambiamento in grado di avviare, strutturare e consolidare processi di miglioramento sociale misurabili nei loro esiti e sostenibili nel corso del tempo, anche attraverso la riattivazione delle proprie risorse autonome da parte dei soggetti coinvolti. Questo è il senso che Anteo dà alla missione di Cura delle persone e delle relazioni che ha assunto come propria fin dalla sua fondazione.

Attuare azioni di ascolto competente dei bisogni, progettare interventi finalizzati a obiettivi sostenibili e realmente motivanti, mobilitare risorse, agire per sensibilizzare: queste sono le direttrici attraverso le quali le energie di Anteo si sono espresse per trasformare i percorsi esistenziali degli utenti, la qualità delle loro relazioni e le dinamiche delle loro comunità di riferimento.

I testi #STORIEDIMPATTO nascono da interviste ad attori testimoni privilegiati di questi processi, condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni. Non troverai un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce che l’azione di Anteo, vale a dire dell’organizzazione Anteo e delle sue persone, genera giorno dopo giorno.

#storiedimpatto n. 1: Roberto Merli, Direttore della Struttura Complessa di Psichiatria ASL Biella, racconta una partnership di successo

Un’idea rivoluzionaria…

All’epoca Emanuele Lomonaco era primario a Biella e Direttore del DSM. È stato lui ad introdurre nell’ASL di Biella quella che oggi si chiama co-gestione: una sorta di intreccio in cui gli aspetti legati alla riabilitazione psichiatrica, che non rientrano nell’attività ambulatoriale dei servizi sanitari per la salute mentale, vengono delegati a un soggetto appartenente al mondo della cooperazione che integra, in questo modo, i percorsi a favore dei pazienti gravi in carico. Parliamo principalmente di residenze protette, centri diurni e riabilitazione lavorativa.

Lavoravo con Emanuele dalla fine del 1982 e ho iniziato insieme a lui a conoscere il piccolo gruppo che nel 1993 avrebbe fondato la cooperativa sociale Anteo, Luca [Tempia Valenta; n.d.r.] e Mariarosa [Malavolta; n.d.r.] e Patrizia [Martiner Bot; n.d.r.] in particolare. In quella fase, si sono dedicati alle prime iniziative rivolte ai pazienti, una serie di attività di socializzazione come la piscina, la pallacanestro, la cucina, pionieristiche per l’epoca, utilizzando mezzi di fortuna, anche grazie alla collaborazione di amici sul territorio, e guadagnando la disponibilità delle Amministrazioni locali.

Ho proseguito il mio percorso professionale insieme a Emanuele e ho osservato ciò che faceva: si era ispirato a una cooperativa già attiva in Friuli, andava anche direttamente in loco per apprendere e cogliere idee e spunti. Sicuramente la scelta di importare quel modello e declinarlo sulla base delle caratteristiche della nostra realtà è stata interessante e anche risolutiva rispetto al grave problema di carenza di personale che vivevamo. Quando ho iniziato a lavorare, il nostro CSM aveva solo tre infermieri assunti dall’allora Unità Sanitaria Locale; altri infermieri provenivano dal manicomio di Vercelli, ma una volta andati in pensione non sono stati sostituiti. Non disponendo di personale per sviluppare il tema fondamentale della riabilitazione che segue la prima fase, quella della stabilizzazione sintomatologica del paziente, c trovavamo a svolgere un lavoro monco. Una volta che il paziente grave cronico è stabilizzato, infatti, è necessario inserirlo in un circuito riabilitativo che deve avere come obiettivo fondamentale l’inclusione sociale, attraverso l’attivazione di tutte le risorse disponibili, dal lavoro alla famiglia alle relazioni sociali. Non basta stabilizzare: soprattutto nei casi gravi è indispensabile offrire l’opportunità di vivere una vita ordinaria soddisfacente, una quotidianità adeguata, come quella di tutti i cittadini che non soffrono di questo tipo di patologia.

Nel 1999 sono stato nominato Direttore della Struttura Complessa di Psichiatria di Cossato (BI). Con Emanuele, che sarebbe poi morto alla fine del 2006, si è sviluppata una collaborazione straordinaria: le nostre aree di interesse erano diversificata, perché lui si dedicava all’epidemiologia e alla riabilitazione sociale nelle sue varie declinazioni, mentre a me interessavano la clinica dell’urgenza, la farmacoterapia, la salute fisica dei pazienti, nonché la prevenzione del suicidio. La nostra collaborazione si è configurata di fatto come integrazione fra i nostri interessi; ne è nato un buon equilibrio, molto armonioso e intenso, privo di insanabili contrasti.

… feconde (e salvifiche) sinergie

Nel periodo dal 1999 al 2006 abbiamo realizzato progetti importanti, una produzione scientifica significativa, in termini di relazioni, pubblicazioni, poster a convegni e congressi nazionali, l’organizzazione nel 2005 a Biella del Congresso Nazionale della Società Italiana di Epidemiologia Psichiatrica. Tutto questo anche grazie al contributo di Anteo, che è stata al nostro fianco e ha fatto molto, mettendo a disposizione competenze e risorse. Ci sono tracce di questa stagione così feconda qui, sulle pareti dei nostri ambulatori. Una fioritura di pensiero e progettualità, lo sviluppo di temi cruciali e di grande attualità in quegli anni… Ognuno di noi ha condotto esperienze nuove, ha preso contatto con figure di rilievo nazionale, docenti e ricercatori universitari sono venuti a fare formazione da noi e ci siamo confrontati su entrambe le aree, quella più strettamente clinica e quella riabilitativa. È stata una fase molto positiva e coinvolgente, anche piacevole nonostante le fatiche, anche per i risultati che si ottenevano.

Senza questo modello di cogestione, la nostra psichiatria si sarebbe potuta prima o poi trovare in serie difficoltà: sarebbe stata un’attività incompleta, in cui ci saremmo dovuti limitare ad intervenire sul piano prettamente ambulatoriale e delle emergenze. Un aspetto particolare della nostra esperienza è di avere lavorato per molti anni senza disporre di un reparto psichiatrico ospedaliero per il ricovero dei casi acuti. Il reparto è stato riaperto nel maggio 2008 dopo quasi 25 anni di chiusura, a causa di un piccolo incidente, fortunatamente senza vittime. L’assenza del reparto (SPDC) ci ha costretto ad imparare a gestire l’emergenza psichiatrica attraverso un’attenta selezione dei casi da ricoverare, cercando posti letto nei reparti di tutta la regione, qualche volta anche fuori regione. Per dimettere una persona di notte dal Pronto Soccorso dovevamo essere ragionevolmente sicuri di avere compiuto tutto quanto in nostro potere per prevenire immediate ricadute della crisi. Posso dire che l’impegno profuso è stato elevato, da parte di ciascuno di noi: personalmente da questa esperienza ho imparato che l’intervento in urgenza, non deve essere condizionato né dall’orario né dal desiderio di concludere rapidamente l’intervento stesso; il rischio, in questi casi, è di non garantire la giusta accoglienza emotiva e l’appropriata scelta clinica-organizzativa. Devi ascoltare e cercare di capire prendendoti il tempo necessario, anche 3 ore; restare con il paziente in Pronto Soccorso a discutere, studiare, osservare, attendere i risultati di un intervento farmacologico, e poi, solo dopo, andare a dormire tranquillo di aver fatto tutto il possibile, avendo lasciato fori dal tuo orizzonte l’orologio e la percezione della fatica.

Un modello efficace e flessibile di presa in Cura

La mia percezione e la mia esperienza di Anteo è sempre stata, fin da allora come ancora oggi, quella di un soggetto dotato di un’ottima organizzazione interna. Se si chiedeva qualche intervento o si segnalava una criticità, il tema veniva subito affrontato; a volte non è neppure necessario richiedere le azioni che si rendono necessarie o opportune, perché c’è una grande autonomia anche nel cogliere i bisogni e prevenire le difficoltà. Le psicologhe responsabili dei diversi servizi e delle strutture residenziali, in particolare, hanno sempre dimostrato competenza e prontezza, una grande disponibilità. Ciascuna ha saputo essere presente, sempre reperibile, garantendo tempi rapidissimi di risposta: mandare una email e ottenere risposta nell’arco di 24-48 ore è per certi versi stupefacente, soprattutto rispetto ai tempi del settore pubblico. Ecco: quando il privato funziona così, offre veramente un valore aggiunto.

Nella relazione degli Operatori Anteo con i pazienti, che sono spesso multiproblematici e affetti da gravi disturbi mentali cronici, ho riscontrato sempre grande attenzione, un reale interesse a occuparsi di loro. Sono pazienti non facili e la relazione con loro può essere a volte faticosa. Sotto questo rispetto, tutto il personale è ammirevole: educatori, OSS, professionisti che si confrontano giornalmente con queste situazioni, tutti si sono dimostrati persone molto motivate. Vengono aiutati in particolare attraverso i momenti di supervisione, in cui c’è spazio per lo sfogo e la segnalazione delle criticità che si incontrano, che affrontiamo insieme e che risolviamo. Apprezzo moltissimo quello che è stato fatto. La formazione resta imprescindibile per saper “resistere” e produrre risultati.

Rispetto al lavoro, per esempio, c’è chi non riesce a cercarlo, chi lo cerca ma non lo trova e poi c’è chi lo trova ma lo perde continuamente. Ecco che proporre un lavoro che si svolge in un ambiente protetto o comunque nel contesto di un percorso assistito può aiutare la persona nel percorso di inclusione sociale.

Storie di cambiamento

Ricordo un nostro utente con il quale abbiamo costruito un progetto per l’inserimento lavorativo. Avevamo individuato con lui e per lui un’attività nel settore della raccolta carta ma, poco dopo l’inizio del percorso, aveva cominciato a creare una certa tensione, manifestando atteggiamenti aggressivi e provocatori. Si lamentava di ogni piccolo aspetto organizzativo e operativo, si sentiva discriminato, interpretando in maniera distorta i gesti e le parole altrui. Abbiamo organizzato una riunione, naturalmente con lui, e abbiamo concordato tutti insieme una sospensione del suo impegno lavorativo: era necessaria una pausa, durante la quale l’abbiamo accompagnato nella riflessione sulle criticità emerse e sul fatto che il persistere di certi comportamenti avrebbero impedito la ripresa del lavoro. Lui è riuscito a comprendere e a modificarsi, a modulare il suo agire, ed è rientrato al lavoro con una consapevolezza nuova: ha capito più pienamente il valore di quella grande opportunità e ha messo in campo una flessibilità preziosa innanzitutto per il suo benessere. La gestione e il superamento di situazioni critiche come questa avviene in partnership con gli operatori Anteo, che hanno maturato una solida esperienza in merito

Penso anche a un altro paziente che sta utilizzando al meglio le risorse del Centro Diurno gestito da Anteo: una volta stabilizzato a livello sintomatico, la sua patologia, per quanto grave e cronica, gli consente ora una frequenza regolare delle attività proposte; viene puntualmente in ambulatorio a prendere le terapie e abbiamo così modo di monitorare il suo percorso; ha costruito delle relazioni sociali soddisfacenti e conquista gradualmente piccoli spazi di autonomia che alimentano la sua autostima, lo motivano a procedere dandogli la percezione di essere sulla strada giusta. Anche in questo caso, il dialogo e lo scambio continui fra équipe curante del CSM ed équipe riabilitativa di Anteo consentono uno sguardo d’insieme che aiuta a cogliere per tempo segnali critici, a costruire soluzioni integrate, a coinvolgere sempre in primo piano la persona in carico, con coerenza e condivisione di valori e modelli d’intervento.

Il complesso tema dello stigma sociale

Il tema dello stigma è sempre aperto, sempre doloroso. E ovunque, anche nei territori in cui si lavoro sodo, come il nostro. Sono convinto che lo stigma sparirà dalle convinzioni della popolazione nel momento in cui si offrirà una guarigione veloce e duratura per le gravi malattie psichiatriche. Lo stigma nei confronti dei tumori è molto diminuito dal momento in cui farmacologia e chirurgia offrono la speranza di guarigione. Lo stigma passa se passa la paura. La paura passa quando c’è speranza o certezza dell’esistenza di strumenti di guarigione o di stabilizzazione dei sintomi.

Lo stigma traspare da certi commenti che si leggono sui social quando ci si esprime su fatti che riguardano comportamenti che spaventano e che vengono associati al concetto di malattia mentale anche quando non c’è alcun fondamento scientifico che sostanzi tale associazione. Spesso si tende a criminalizzare il malato psichiatrico grave o, viceversa, a voler attribuire una connotazione di malattia psichiatrica ad un comportamento esclusivamente criminale. Nelle comunicazioni mediatiche, si parla spesso di “folle gesto” o di “raptus di follia” per descrivere crimini magari premeditati che non hanno leso la capacità di critica e di giudizio. Questo approccio genera confusione. Il vero malato va tutelato; si tratta di riconoscere quella che Vittorino Andreoli chiama “la dignità della malattia”, intendendo le conseguenze della grave malattia mentale. Il cosiddetto “vizio parziale” andrebbe abolito, perché finiscono per giocarci sia la difesa sia l’accusa, alimentando paradigmi errati e in-culture. Alla fine il rischio che si sta correndo è quello di delegare alla psichiatria il controllo sociale.

Quale malattia mentale oggi e quali percorsi terapeutico-riabilitativi?

Ci sono trasformazioni in atto che hanno importanti riflessi sulle nostre attività. Se un tempo ci confrontavamo prevalentemente con persone con psicosi schizofreniche, nel corso dei decenni e degli ultimi anni in particolare sono aumentati gli accessi ambulatoriali di persone con gravi disturbi di personalità. Gli interventi specifici richiesti sono diversi: si tratta di persone che, pur essendo in grado di comunicare ed entrare in relazione, di farsi una famiglia e lavorare, hanno peculiari strutture di personalità con carenze nel percorso di maturazione personologica e di autonomia, per le quali entrano facilmente in conflitto con gli altri. Il lavoro ambulatoriale consiste, allora, nell’aiutare queste persone a riflettere sulle loro modalità di relazione, su quanto le loro aspettative siano o no realistiche; si aggiunga che, in questi contesti, si presentano disturbi molto diversificati fra loro, e si rendono quindi necessarie offerte riabilitative realmente individualizzate.

Sono necessarie modalità terapeutiche, riabilitative e relazionali differenti rispetto a quelle messe in atto con il paziente psicotico cronico: le diagnosi sono di disturbi borderline, con abuso di sostanze, tentativi di suicidio, disturbi narcisistici che comportano, per esempio, l’aspettativa di essere onorati dagli altri e la convinzione di avere sempre ragione, forti dipendenze dall’approvazione altrui… Sono situazioni complesse e sfidanti, che affrontiamo in sinergia con Anteo, certi di poter contare sulle competenze e sulla flessibilità dell’organizzazione complessiva, delle équipe e dei singoli professionisti.

 

di Roberta Invernizzi