PICCOLA NOTA DI METODO

Anteo è l’insieme delle persone che ogni giorno lavorano per far funzionare al meglio i servizi rivolti a persone che vivono varie forme di fragilità. In questo spazio, incontriamo storie, esperienze di lavoro e quindi di vita, che alcuni Colleghi generosamente mettono in comune con tutti noi. Questi testi nascono da interviste condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni dall’interno di un ruolo che è sempre ben più di un abito che avvolge un corpo. Non troverete un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce permanenti che ha lasciato ogni incontro di intervista, ogni intreccio di sguardi accaduto in uno spazio e in un tempo definiti.

#intervistandoanteo n°24 Conversazione con Federica Caputo, Responsabile di una Comunità che, nel Torinese, ospita giovani con disabilità.

L’emozione degli inizi

La sfida è iniziata nel 2018 ed è stata entusiasmante: dalle persone agli spazi e agli accessori, tutto da scegliere e costruire!

Ho 43 anni, nel 2006 mi sono laureata in Scienze dell’Educazione e ho sempre lavorato come Educatrice Professionale, prima in Pro.Ge.S.T. e ora, dopo la fusione, in Anteo. Non ho mai sentito il bisogno di cambiare cooperativa, non solo perché mi sono sempre trovata bene ma anche perché la mia ricerca del nuovo è stata appagata dalla varietà di servizi in cui ho lavorato, in Torino e dintorni.

Attualmente sono la Responsabile della Comunità per persone con disabilità “Il Grande Albero”, a San Gillio (TO). Quando abbiamo aperto la Comunità, provenendo da anni di esperienze in altri servizi per disabili, ho potuto applicare ciò che ho appreso per creare una nuova realtà e farla funzionare. L’équipe non era ancora formata, gli Ospiti sono stati inseriti gradualmente. Abbiamo iniziato con due…

Su una parete campeggia un grande stencil che raffigura un albero con le foto degli Ospiti. E tutti i dettagli sono stati scelti con l’obiettivo di trasmettere benessere attraverso un ambiente curato, colorato, funzionale, comodo e anche bello. Le pareti sono in prevalenza rosa, ma poi c’è anche del grigio, ci sono i quadri realizzati con la nostra Arteterapeuta che raffigurano paesaggi stagionali… C’è anche un quadro che rappresenta un albero, naturalmente il leit motiv di questa Comunità: la presenza della natura è molto forte, qui, sia all’interno degli spazi abitativi, attraverso queste raffigurazioni, sia fuori, grazie ad un bellissimo giardino. Cerchiamo di fare di questo luogo una bella casa.

Provo una sorta di senso di maternità rispetto a questo servizio, che sento come ancora giovane: abbiamo tante cose da fare, Ospiti e Operatori insieme!

… e poi, il Covid

Questa sensazione è acuita anche dal fatto che, proprio quando eravamo arrivati a pieno regime, è scoppiata la pandemia: si sono così aperti due anni di rallentamento sensibile, quasi di sospensione almeno in superficie, soprattutto rispetto a quel lavoro di tessitura di collaborazioni sul territorio che avevamo avviato. San Gillio è un piccolo comune, nella zona ci sono molte associazioni con cui avevamo iniziato a collaborare, ma alcune, soprattutto le più piccole, con il Covid sono sparite, perché le persone si sono dovute reinventare in altre attività. È stato una specie di sisma. E anche per noi è stata una fase complessa. Ancora oggi le attenzioni rimangono: lavoriamo con la mascherina, alcuni Ospiti sono ancora spaventati. Continuiamo a fare i tamponi mensilmente, Ospiti e Operatori, e ogni volta si sente la tensione mentre aspettiamo gli esiti: i ragazzi temono l’isolamento, la rinuncia ai rientri a casa… Le visite, intanto, avvengono regolarmente, nel nostro giardino o in una sala che viene accuratamente sanificata.

Il virus è entrato nella nostra realtà e ha cambiato la nostra cultura. Il contatto fisico per molti dei nostri Ospiti è importante, fa parte delle loro modalità di comunicare. Abbiamo utilizzato le videochiamate per mantenere costante il rapporto con le famiglie. E abbiamo spiegato, con semplicità e trasparenza, il senso delle varie limitazioni e regole: cura è anche protezione, prudenza.

Personalmente, la vedo così: per quanto difficile, si è trattato di qualcosa di prezioso, perché siamo riusciti a far fronte a tanti eventi, inventando risposte a problemi nuovi e trasformando davvero i problemi in opportunità.

Il più bello del mondo

Il mio è il lavoro più bello del mondo perché mi fa stare bene. Ricordo un episodio, in particolare, che mi ha fatto riflettere su questo aspetto, meno lineare, meno “semplice” di quanto possa sembrare.

Avevamo organizzato un’attività di trekking e abbiamo deciso di andare in un rifugio, scegliendolo vicino alla Comunità e coinvolgendo un operatore e un volontario del Servizio Civile. Sono stati due giorni fantastici e i ragazzi erano davvero felici. Al ritorno, ho raccontato quell’esperienza a mio marito: ero entusiasta, avevamo fatto stare bene le persone di cui ci prendiamo cura. Quale lavoro può essere più appagante? Il giorno dopo, uno degli Ospiti che erano venuti al rifugio ha avuto una brutta crisi. E io ho cominciato a interrogarmi: si era stancato troppo rispetto alle energie di cui disponeva? Avevamo “spinto” troppo? Provavo ansia. Tornata a casa, con mio marito ho pianto tutta la mia frustrazione. Ecco: ci sono tante sfaccettature nel nostro lavoro quotidiano. E chi partecipa in modo autentico a ciò che fa, con vera presenza, si trova a gestire questa complessità: non puoi controllare tutto, ci sono reazioni non prevedibili. L’equilibrio fra ciò che vuoi fare e ciò che puoi fare è difficile, ma mi piace cercarlo.

Il mio ruolo è quello di Responsabile, ma mi sento sempre essenzialmente un’Educatrice, perché la dimensione progettuale ed educativa del mio lavoro mi fa sentire sempre piena di idee, creatività. E mi piace che il fare sia accompagnato sempre dal perché, dalla motivazione, dal senso. Credo sia importante interrogarsi, chiedersi com’è andata una certa azione, un’attività, un’esperienza, confrontarsi fra colleghi sui vissuti, anche per sentirsi meno soli. L’equilibrio tra il fare e il riflettere mi sembra che ci sia insegnato magistralmente dalle piante, che in inverno sembrano morte, secche, ma in realtà si prendono il tempo per quelle nuove energie che, in primavera, consentiranno loro di sbocciare. C’è tanta vita nel “grande albero”: sempre!

Le peculiarità di una Comunità anagraficamente giovane

“Il Grande Albero” è abitato da 11 persone e ha un ulteriore posto per pronto intervento. Oggi gli Ospiti sono 7 maschi e 4 femmine, di età compresa fra i 23 e i 46 anni. Il nostro è un ambiente giovane e vivace, molto dinamico, sia per ragioni anagrafiche sia per il fatto che tutti gli Ospiti sono deambulanti e fra loro ci sono pochissime disabilità fisiche. Per certi versi… una polveriera! In primo piano si pongono temi come l’utilizzo dei social network, l’aggressività e i conflitti, la sessualità e l’affettività. Le tipiche tematiche giovanili, insomma. E così nascono amicizie che si evolvono nel tempo, anche con screzi e scaramucce, ma anche fidanzamenti.

La dimensione dell’affettività delle persone con disabilità è ancora un grande tabù. Ma è semplicemente una realtà con cui confrontarsi con mente aperta. Il desiderio di intimità va gestito, in un contesto residenziale che non nasce con quelle finalità specifiche ma che deve saperle accogliere. Come équipe abbiamo seguito percorsi formativi rispetto a questo argomento; c’è anche uno Sportello Handicap Sessualità a Torino, che è in grado di dare una mano.

Sesso è tante cose. Le situazioni vanno affrontate giorno per giorno. E bisogna poterne parlare, anche in supervisione, in gruppo, per capire come approcciarci nel modo giusto, per evitare fraintendimenti, consentire spazi di libertà legittimi e tutelare la serenità di tutti, Ospiti e Operatori.

Tutti i nostri Ospiti sono molto seguiti, sia in Comunità da noi, sia a casa, da familiari che nella maggior parte dei casi sono a loro volta giovani e formati sulla disabilità: si tratta di mettere a frutto le risorse di questa rete di cura così ricca, collaborando con interlocutori richiedenti ed esigenti che possono diventare partner, alleati preziosissimi per il benessere anche intimo della persona con disabilità che a tutti noi sta a cuore.

A proposito di alberi…

Federica ci propone una riflessione, a partire da una ispirazione botanica.

Il glicine e l’arte della sopravvivenza

Non ho il pollice verde. Tendenzialmente se una pianta entra in casa mia è destinata alla morte.

Le piante non le comprendo, non parlano non chiedono. Le annaffio? Marciscono. Non le annaffio? Seccano.

Tutte le piante tranne una: il glicine appena fuori dal mio terrazzo.

Il glicine sopravvive: lo poti da un lato, lui butta fuori dall’altro. La strada è sbarrata? Si insinua tra le piastrelle, le spacca e germoglia comunque. C’è un albero sulla sua strada? Lo ingloba e continua a crescere.

Io vorrei essere come il glicine.

Non parlo di giardinaggio. Negli ultimi due anni il Covid e tutto quello che si è portato dietro hanno trasformato la nostra vita professionale, qui, a “Il Grande Albero” ma temo anche in tanti altri contesti, in una specie di puntata senza fine di “giochi senza frontiere”.

Non possiamo fare le attività all’esterno? Ok, le facciamo noi!

A casa non possono andare? Tranquilli, passeranno comunque un Natale fantastico e diventeremo maghi di Skype e Zoom, così potranno vedere i parenti!

Ok, liberi tutti? Tre positivi. Isolamento. Tamponi di controllo.

Sei sulla casella vaccinazione? Fermo per due turni.

Abbiamo cercato di proseguire il nostro lavoro di cura confrontandoci con qualcosa che nessuno si aspettava e, anche se prima terrorizzati, poi stanchi e forse oggi un po’ stufi, abbiamo dovuto dare delle risposte, sempre e in modo rapido, perché questo ci si aspettava da noi. Da parte dei nostri Ospiti, dalle famiglie, dai nostri colleghi stessi, in alcuni casi.

Tutto questo mi fa venire voglia di chiedere al glicine se è stanco di vivere così.

Ma se lo facessi mi risponderebbe: “sì, ma in inverno vado in riposo vegetativo… Vedi che non hai proprio il pollice verde?”

Ah! Ecco la risposta: è necessario fermarsi. Fermarsi e riflettere, per non far sì che la risposta “troppo pronta”, la soluzione ad ogni costo non diventino il nostro stile.

Perché di questo si tratta: dare un senso a ciò che accade, a come lo abbiamo gestito e come ci sentiamo oggi.

Penso che valga davvero tanto nella nostra professione e non solo per questa specifica “tegola” che ci è caduta fra capo e collo di nome Covid (nelle sue innumerevoli varianti).

Io ci provo, ad andare in riposo vegetativo. Chissà che il glicine non abbia ragione!

 

di Roberta Invernizzi