PICCOLA NOTA DI METODO

Anteo è l’insieme delle persone che ogni giorno lavorano per far funzionare al meglio i servizi rivolti a persone che vivono varie forme di fragilità. In questo spazio, incontriamo storie, esperienze di lavoro e quindi di vita, che alcuni Colleghi generosamente mettono in comune con tutti noi. Questi testi nascono da interviste condotte secondo una postura narrativa: in primo piano, il sentire dell’intervistato, scelte ed emozioni, episodi significativi, riflessioni dall’interno di un ruolo che è sempre ben più di un abito che avvolge un corpo. Non troverete un’alternanza fra domande e risposte: le domande sono semplici stimoli che si sciolgono nel racconto dell’intervistato, nella compiutezza che esso restituisce. Siamo dunque a leggere le tracce permanenti che ha lasciato ogni incontro di intervista, ogni intreccio di sguardi accaduto in uno spazio e in un tempo definiti.

#intervistandoanteo n°23 “Celestino Zulato, Responsabile Area Servizi Anziani Anteo, ci racconta la sua storia. O almeno… qualche sequenza!”

Nel mondo del sociale per istinto

Ho fatto l’ITI, sono perito chimico. Non avevo un interesse specifico, da ragazzino avevo pensato anche all’istituto alberghiero, ma alla fine hanno scelto i miei genitori, pensando a un percorso che mi portasse ad avere un titolo spendibile, in quel periodo, nel mondo del lavoro.

Ho poi deciso di fare il servizio civile, perché il servizio militare mi sembrava senza senso. Sono stato uno degli ultimi ad accedere a quello di 20 mesi. Ricordo che c’erano delle motivazioni e anche valori da esprimere, quando si optava per questa strada, e io, che non avevo slanci così potenti, mi ispirai allo scritto di un amico. Scelsi la Caritas, perché m’interessava un’esperienza di tipo assistenziale. Mi immaginavo bene in ruoli di quel tipo, sebbene non avessi esperienze di alcun tipo, neanche nell’ambito della famiglia. Mi ha orientato una sorta di istinto…

La Domus Laetitiae, struttura dedicata alle persone con disabilità, era uno degli enti convenzionati con Caritas e sono finito lì. Inizialmente dormivo in struttura; poi ci hanno sistemati altrove,    comunque fuori casa, com’era previsto a quei tempi, per la valenza formativa della vita  comunitaria, anche rispetto ai valori della non violenza. A me interessava fare un’esperienza che avesse un senso, senza altri particolari obiettivi.

La semplicità dell’agire

Qualche mese prima del servizio civile, mi ero avvicinato alla realtà della Domus come volontario e avevo scoperto un mondo. C’era ancora la scuola speciale interna, c’era la riabilitazione… Gli ospiti erano una trentina di utenti minorenni. Ricordo il responsabile: un quarantenne estremamente appassionato, che trascorreva lì le sue giornate, con un’adesione valoriale molto forte e un approccio quasi paterno nei confronti di tutti.

In quel periodo era stato aperto un nuovo nucleo per adulti. All’inizio erano poche persone, una decina, e i bisogni erano molto variegati: c’era chi aveva un ritardo mentale grave e chi un ritardo lieve. Io non avevo particolari timori o ritrosie. Forse c’era anche un po’ di incoscienza. E forse c’erano meno consapevolezze, in quella fase storica. Si facevano tante cose ma non si era mai da soli, c’era il gruppo che ti sosteneva, ci si completava a vicenda, sulla base delle capacità di ognuno. Ricordo, per esempio, una ragazzina che andavamo a prendere al doposcuola: la portavamo alla Domus per qualche attività e infine la accompagnavamo a casa. Aveva un ottimo rapporto con le figure maschili, quindi adorava me e il collega, con noi accettava qualsiasi regola e qualsiasi proposta di attività, mentre con le Educatrici mostrava molte resistenze. Ecco: dove non arrivava qualcuno di noi, per qualsiasi motivo, arrivava un altro.

I colleghi mi riconoscevano una pacatezza, una tranquillità nel pormi in relazione con l’altro che  aiutava molto. Me la cavavo, mi piaceva… E poi ho incontrato la mia fidanzata, quella che sarebbe diventata mia moglie. Era Educatrice lì, come ancora oggi.

Un impegno autentico, non retorico né fanatico

C’era una grande motivazione, in quella fase, da parte di tutti noi. Non si contavano ore e minuti… Mio padre era un responsabile di produzione in una carderia e lavorava sempre, anche la domenica sera, quando andava ad accendere la caldaia per il giorno dopo. Credo di aver assorbito questo approccio al lavoro e per anni non ho quasi saputo quale fosse il monte ore previsto per me.

Stavano nascendo i servizi socio assistenziali e le qualifiche richieste non erano stringenti. Al termine del servizio civile, mi hanno chiesto se desideravo fermarmi. Era gennaio 1989. Mi piaceva l’idea di unire la necessità di essere autonomo economicamente con la possibilità di fare qualcosa di utile. Anche fare tappeti è utile, ma quella dimensione, più legata alle persone, mi faceva stare bene. E in quel momento l’esperienza mi diceva che potevo farcela.

Io sono molto laico, moderato, nelle mie posizioni. Ci sono cose sicuramente importanti per le quali ti metti in gioco, non conti le ore, spendi il tuo nome e il tuo impegno, ma non sono favorevole alla retorica, non la sento mia.

Anche allora, quando compii di fatto la mia scelta, non mancavano gli interrogativi. Per  esempio, sapevo che avrei dovuto formarmi, che con il tempo ci sarebbe stata questa necessità, per le competenze crescenti che i servizi richiedevano. Mi chiedevo anche quanto in futuro, “da grande”, avrei avuto lo slancio e le energie necessarie per lavorare con queste persone nei vari laboratori.

C’era un forte accento sul fare, in quella fase si allestivano laboratori di ceramica, di tessitura a   telaio…

Imparare a nuotare

A me piaceva molto nuotare ed ero anche bravino, così ho cominciato a portare i ragazzi in piscina. Poi ho preso il brevetto come assistente bagnante anche per le acque aperte: era utile, anche per le responsabilità legate a quella attività. Avevamo una corsia tutta nostra, alla piscina  comunale, e abbiamo organizzato un corso di acquaticità, applicando un metodo specifico appreso a Monza, basato sull’approccio più efficace con persone con disabilità.

Non ho mai avuto particolari paure, è sempre andato tutto bene. Oltre al nuoto, c’era anche una bella componente di gioco, c’erano le bolle, il galleggiamento con la tavoletta… Qualcuno, comunque, ha proprio imparato a nuotare, con noi! Ricordo un ragazzino con cui ho lavorato per un anno: abbiamo iniziato nella “vaschetta” per bagnare i piedi e poi, piano piano, ha conquistato la vasca grande. Io mi occupavo proprio delle fasi di approccio, con i giochi di gomma, usati come oggetti transizionali; poi proseguivano altri, anche sulla parte più propriamente sportiva, che mi interessava meno.

Responsabilità crescenti: verso la regia

Nel 1993/1994 sono entrato nel Consiglio di Amministrazione. Mi spingeva quella strana incoscienza per cui, soprattutto da giovane, ti credi in grado di fare un po’ tutto. E i colleghi mi hanno incoraggiato: mi dicevano che mi avrebbero votato… e io non mi sono sottratto. Così, sono  diventato Vicepresidente di un Consiglio abbastanza giovane. Poi la Presidente si è assentata per  maternità e di fatto mi sono ritrovato a fare il Presidente. Eravamo un bel gruppo. Non mi sono mai sentito solo.

Non mi sono mai sentito neppure un tecnico. Impostare un metodo mi piace, ma poi lascio volentieri che siano altri a farlo funzionare. Mi sento più regista che attore.

Così sono diventato prima Presidente, poi Direttore Generale, e alla fine ho sentito di aver fatto quello che potevo e intendevo fare. Ancora oggi vedo che tante vie intraprese allora sono proseguite e hanno dato i loro frutti: ne sono felice e anche orgoglioso.

La relazione con le famiglie con disabilità

La disabilità vissuta dal familiare rappresenta un’esperienza complessa, che può essere molto dolorosa. Ci sono delle aspettative rispetto ai figli, anche semplicemente di serenità, e poi c’è  lo scontro con le sofferenze, anche legate alla salute fisica.

C’è il passaggio delicato della diagnosi, che anni fa era ancora più difficile, per esempio per le sindromi di origine genetica: mancava anche un vocabolario adeguato, ci si doveva destreggiare tra metafore e approssimazioni. Poi il genitore si confronta con il ventaglio di possibilità che avrebbero potuto realizzarsi e che invece non si sono verificate: leggendo molte cartelle cliniche si aprono spazi per rivendicazioni più o meno fondate e così diventa difficile accettare, andare avanti…

La mia percezione è cambiata dopo essere diventato padre. All’inizio tendevo a giudicare: “non vengono mai a trovarlo, si disinteressano, lo vestono con scarsa attenzione…”, pensavo. Poi, formandomi e vivendo, con l’esperienza, è emersa in me una consapevolezza diversa. E poi quando hai tra le mani un pargoletto che fortunatamente non ha tubicini, aghi o altri aggeggi, ed è quello, è il tuo pargoletto… Il pensiero corre a situazioni ben diverse, che con gli anni si complicano anche. Perché un bambino piccolo che si agita lo prendi in braccio, ma con un  omone autistico alto quasi due metri che cosa fai? E poi c’è la parte dell’affettività e della sessualità da comprendere e gestire… E se sopravvivere ai propri figli è dura, anche pensare al contrario è difficile… Ecco perché il pensiero di quello che avrebbe potuto essere e non è stato e non potrà mai essere tende a rimanere, a ripresentarsi nei momenti di fragilità.

Ecco perché credo che coinvolgere le famiglie sia importante: coinvolgerle nelle decisioni, favorire la condivisione dei loro pensieri, comprendere insieme che cosa è possibile fare, fin dove si può arrivare, senza illusioni ma anche senza preclusioni a priori.

Una grande residenza per anziani: una nuova dimensione da gestire

All’Istituto Belletti Bona ho iniziato come Direttore: avevo il compito di tradurre le linee   politiche in operatività. Già nel mio precedente periodo lavorativo la relazione con l’utenza era andata un po’ sullo sfondo; nel nuovo contesto, ho sempre cercato di tenermi ai margini rispetto alla pura operatività, per non generare confusione e anche per rispetto delle competenze tecniche dei colleghi. Ognuno ha le proprie mansioni: nell’ambito delle mie, mi risultava anche piacevole “fare il nonno”, offrire il cappuccino anche quando non sarebbe stato proprio consigliato, insomma concedere quelle eccezioni innocue rispetto alle regole che un operatore è chiamato assolutamente a evitare. Poi, naturalmente, faceva capo a me la gestione delle criticità. Ma la “giusta distanza” o “giusta vicinanza” rispetto a ospiti e famiglie, legate al ruolo, le ho sempre considerate salutari per tutti.

Mi trovo bene in questo genere ruolo, in un contesto in cui rimane il contatto con l’utenza, ma dove  mi posso dedicare soprattutto alla pianificazione e gestione delle attività. Ecco il ruolo di regista. Ho sempre percepito che un’eccessiva distanza dalle persone alle quali sono dedicati i nostri servizi mi farebbe perdere il senso del mio lavoro: devo avere la percezione di fare qualcosa che ha una ricaduta senza, però, esservi immerso totalmente dal punto di vista operativo. Mi piace percepire un clima di sviluppo, di crescita, di prospettiva, in cui c’è spazio per fare anche in vista di un futuro da scrivere: questo è quello che mi alimenta. Il senso della costruzione.

Lavorare con gli anziani e lavorare con i disabili: differenze e analogie

Lavorare con i disabili e lavorare con gli anziani è molto diverso. Con gli anziani è necessaria un’équipe “leggera” e poco articolata, anche dal punto di vista organizzativo; nei servizi per disabili, invece, sono necessarie più figure, ci sono altri standard, è un settore di nicchia che accoglie un bisogno specifico, in cui c’è meno concorrenza qualificata ed è sempre prevista una compartecipazione da parte dell’ASL che supporta le famiglie e alimenta i servizi. Il tuo agire è più personalizzato e c’è una prospettiva di permanenza in struttura anche di decenni. Cresci insieme agli utenti. Parli di progetti di vita. Mentre con l’anziano l’accento è sull’assistenza. E l’orizzonte temporale è diverso. Tuttavia, l’attenzione alla persona è sempre e comunque massima, naturalmente. E costruisci in ogni caso relazioni di fiducia con i familiari, affronti criticità, pregiudizi, frustrazioni; con il disabile forse ci sono più opportunità per costruire alleanze con lo sguardo concentrato sulle possibilità reali. Sul futuro.

L’esperienza presso la Residenza Sanitaria per Disabili di Legnano mi è piaciuta molto. Ma sono  poi tornato volentieri al Belletti Bona, questa grande RSA che a mio avviso va più governata che diretta. Non si può pensare di avere tutto sotto controllo, devi accettare che ci    sia qualcosa da delegare, anche per non creare negli operatori dipendenza dalle tue competenze: si devono costruire metodi di lavoro e procedure per favorire le autonomie, il confronto fra colleghi. Soprattutto in un contesto come questo, in cui sei “sotto i riflettori”, perché è una struttura storica, in centro città, e ci sono molte aspettative.

Il cinema come metafora della mia storia e della mia interpretazione della vita

Il cinema mi piace molto. Da giovane dicevano che somigliassi a Francesco Nuti… Ma più che in un attore sento di riconoscermi in un ruolo. Uno dei personaggi che mi sono rimasti nel cuore, per esempio, è Walt Kowalski in “Gran Torino”. Un grande Clint Eastwood! È un personaggio al quale sono affezionato: per buona parte molto diverso da me (è razzista, ama le armi e ha un carattere scontroso), ma alla fine capace di andare oltre i suoi pregiudizi e capace di costruire un sincero rapporto di amicizia. Quello che credo ci accomuni è l’attenzione a rivelarci agli altri   per quello che siamo un po’ per volta. Certo, però, quando si costruisce un rapporto di affetto e di stima profonda allora questo si radica e va oltre ogni vicenda della vita e rimane per sempre. Kowalski è anche questo: pieno di difetti, ma capace di guardarsi dentro, di modificare le proprie convinzioni, di dare sé stesso e di farlo soprattutto in maniera sommessa, mai sbandierata.

Se invece devo pensare a un film che rappresenti la mia vita, la scelta cade su “Invictus”, sempre di Eastwood. Il film parla del mondo del rugby. Questo gioco ha una regola fondamentale: la palla può essere passata con le mani solo all’indietro, mai in avanti. Questo obbliga il portatore di palla non solo ad andare avanti, verso la meta, ma anche ad aver cura di non perdere per strada i propri compagni, che devono stargli il più vicino possibile sia per ricevere il passaggio sia per proteggerlo (lui “è” la palla) nel caso in cui venga placcato dagli avversari. Si tratta, secondo me, di una bella metafora che riguarda la capacità di prendersi cura delle persone che ti sono vicine, sia sul lavoro si anella vita privata, la capacità di proteggerle e di accettare la loro protezione. Oltre alla consapevolezza che gli obiettivi si raggiungono insieme.

La poesia da cui proviene il titolo non la ricordo per intero. Non sono un grande lettore   di poesie… Pare comunque che Mandela la leggesse spesso quando era in carcere. Ricordo gli ultimi tre versi: “Quanto piena di castighi è la vita. Io sono il padrone del mio destino. Io sono il capitano della mia anima”. La vita ci mette davanti a tante partite differenti da giocare, facili o ardue: ciò che conta davvero è decidere di giocarle. In questo senso, possiamo essere tutti indomiti, anche se magari non proprio invincibili.

Quando ho iniziato ad occuparmi di assistenza, per esempio, nelle strutture c’erano cameroni da 20 ospiti, la postazione dell’operatore era separata con un vetro, con il suo lettino; e gli operatori facevano anche il cemento per rattoppare i muri, quando serviva. Ho respirato tutto il vento di cambiamento che man mano è cresciuto in questi ambienti, i primi passi di quella che adesso si chiama umanizzazione. Sarà difficile mantenere e sviluppare tutto questo, ora, con le risorse a disposizione. Sarà una lotta.

Prospettive della Cura

A proposito di sfide, oggi, nel nostro mondo di Cura, vedo grossi problemi a gestire la non autosufficienza. Si devono cercare nuove vie perché le famiglie rischiano di essere soverchiate dal lavoro di cura. Una cosa che non ci diciamo esplicitamente ma che mi sembra chiaro è che il pubblico sta demandando alle famiglie il carico dell’assistenza.

Si parla molto di domiciliarità, ma non c’è un metodo comune, un programma unitario di intervento che la supporti. Rischia di essere uno slogan, un’intenzione. Il ricovero di una persona    anziana in struttura, per essere sostenibile anche economicamente, dev’essere circoscritto nel tempo. Non è quella la via per la gestione “ordinaria” della longevità, in particolare nel periodo in cui la persona è ancora parzialmente autosufficiente. Servono “sentinelle sociali”, quello che una volta poteva essere il postino, per esempio, servono le reti informali attorno alle persone sole e alle famiglie. E ben vengano anche le sperimentazioni, i monitoraggi a distanza con dispositivi digitali per gestire non solo le emergenze, ma anche le criticità quotidiane.

L’obiettivo comunemente è ritardare l’inserimento in residenza. Per contro, a dire il vero, a volte vediamo anziani che in casa di riposo letteralmente rinascono: c’è movimento, vitalità, ci sono opportunità di relazione… È uno stereotipo che la casa sia il luogo migliore sempre: a volte è un luogo di isolamento, in cui le visite sono scarse, in cui piano piano, senza consapevolezza, si possono diffondere la sporcizia e il disordine … La debolezza fa sentire più fragili, vulnerabili. Recuperare una dimensione di socialità e di condivisione (del quotidiano, dei problemi, dei timori, dei desideri), per qualsiasi via e in qualsiasi contesto, rappresenta a mio avviso la priorità.

 

 

di Roberta Invernizzi